Dopo la tempesta, anche in Forza Italia è arrivata la calma. Lo scontro tra i ministri – Mariastella Gelmini, Mara Carfagna e Renato Brunetta – e la maggioranza del partito è stato durissimo e tutti sanno che lascerà strascichi, Silvio Berlusconi per primo. Ora, però, bisogna andare oltre. «Una modalità per proseguire va trovata, parlandosi», sintetizza un importante esponente della linea ortodossa. «Almeno fino a febbraio», aggiunge.

Realisticamente, infatti, non si può sperare di fissare più in là la prospettiva: l’elezione del presidente della Repubblica farà evolvere e cambiare gli scenari e per ora non ha senso ragionare oltre quella data.

La ricetta per andare avanti è fatta di realismo e ritorno alle buone maniere: riunioni ogni dieci giorni, raccordo costante sia con i ministri leghisti che con Berlusconi, che ha ripreso a frequentare la sua residenza romana e soprattutto a mettere intorno al suo tavolo per cena i maggiorenti del partito. In questa convivialità, spera, le diversità di vedute potranno essere almeno ridotte.

Eppure, sotto la cenere cova qualcosa che lo stesso Berlusconi fatica a leggere con chiarezza. «Ancora oggi non ho capito perché si sono comportati così», ha detto a chi lo è andato a trovare a villa Grande, riferendosi ai suoi tre ministri. Il Cavaliere sarebbe rimasto basito: non si aspettava né i toni né i modi utilizzati contro il coordinatore Antonio Tajani. A sfuggirgli, però, è la prospettiva della mossa dei ministri, che in un incontro riservato nei giorni scorsi gli hanno ribadito la loro lealtà personale ma senza nascondergli che esistono nodi politici sulla gestione del partito. Il Cavaliere per ora continua a difendere Tajani.

Il rapporto tra i due rimane stretto e Berlusconi non ha potuto che raccogliere il suo sfogo: da membro del Ppe ed ex presidente del Parlamento europeo non ha digerito le accuse di subalternità ai sovranisti. Chi gli è vicino ha poi smentito al presidente il dualismo interno al gruppo, minimizzando i numeri dei cosiddetti “governisti”, ma Berlusconi sa che i potenziali avversari vanno tenuti vicini, soprattutto quando si trovano in posti strategici come i ministeri, per questo ha concordato coi tre un incontro diretto a settimana.

Brunetta aspirante premier

Dei tre azzurri, il ministro della Pubblica amministrazione Brunetta è stato il più deciso, dividendo in una intervista a Repubblica i confini politici per il futuro del governo in tre categorie: popolari, liberali e socialisti. Parole che hanno irritato non poco la maggioranza dei parlamentari azzurri, convinti della necessità di mantenere l’alleanza con la Lega, che le hanno definite «lunari».

Dal suo entourage spiegano l’obiettivo del ministro: «Il messaggio è stato quello di chiarire che i ministri di Forza Italia hanno lavorato per portare avanti proposte di mediazione, ottenendo risultati concreti che si collocano chiaramente nel solco europeista». In una parola: la direzione del Ppe e quella che piace anche al premier Mario Draghi. Del resto, in Transatlantico, la voce insistente è quella che Brunetta miri proprio a palazzo Chigi.

«Si è messo in mente di fare lui il premier ad interim» nel caso in cui Draghi andasse al Quirinale, dicono. In teoria, sarebbe possibile perché è il ministro più anziano. In pratica l’attuale premier dovrebbe lasciare palazzo Chigi senza preoccuparsi di chi verrà dopo di lui. Brunetta mantiene comunque un rapporto di lealtà con Berlusconi: prima di dare l’intervista a Repubblica lo ha incontrato e preavvertito, spiegandogli «con massima franchezza» la sua posizione. E accogliendo, nei giorni successivi, ogni convocazione a villa Grande per appianare le divisioni.

Intanto il ministro lavora instancabilmente: la riforma della pubblica amministrazione lo sta impegnando molto, soprattutto nell’attenzione ad aderire perfettamente alle indicazioni del Pnrr. Il modo migliore, oggi, per essere considerato una risorsa necessaria per il buon funzionamento del governo.

Gelmini l’organizzatrice

Se Brunetta si è esposto sui mezzi di comunicazione, lo scontro interno è stato sostenuto dalla ministra per gli Affari regionali, Mariastella Gelmini. Lei è certamente la più attiva nell’organizzazione delle truppe e il suo ministero è luogo di riunioni con i parlamentari più scettici sull’attuale gestione del partito.

L’obiettivo, secondo chi fa parte del suo gruppo, è quello di «far cambiare rotta a Forza Italia, posizionandola in una prospettiva politica che possa aggredire il centro». Il ragionamento politico è lineare: il sovranismo non tira più come faceva due anni fa e i voti di quell’area si spostano tra Lega e Fratelli d’Italia, ma gli elettori moderati non sono disposti a sostenerli.

Al contrario, la combinazione tra la pandemia e la positiva esperienza del governo Draghi, ha aperto uno spazio al centro, che però va occupato prima che lo facciano altri. «Basterebbe poco per portare Forza Italia sopra il 10 per cento» ragiona uno dei parlamentari più convinti della linea Gelmini, «considerato che è un miracolo che il partito sia ancora al 7 per cento, dopo l’immobilismo di questi anni e lo schiacciamento sul sovranismo».

Per far cambiare la linea a FI, però, servono persone e numeri: l’ala “governativa” che fa capo ai ministri ma soprattutto a Gelmini conta circa cinquanta tra deputati e senatori. Di più, quindi, rispetto alle 26 firme raccolte nello scontro per l’elezione del nuovo capogruppo a Montecitorio.

Il gioco, in quel caso, sarebbe stato a ribasso. «Ci bastava quel numero di firme per presentare la richiesta e non volevamo svelare tutte le carte. I nostri avversari sanno che siamo di più, altrimenti non avrebbero chiesto a Berlusconi di intervenire con una lettera per salvare la nomina di Barelli», spiega un deputato di quell’area.

Dentro al governo Gelmini ha puntato su due passaggi strategici per sostenere Draghi: sul fronte della campagna vaccinale, ha coadiuvato nel rapporto con le regioni il lavoro del generale Francesco Figliuolo e del collega alla Sanità, Roberto Speranza; le regioni, invece, le sono grate perché ha fatto inserire nel decreto Governance del Pnrr che anche loro siedano ai tavoli che esaminano i progetti e possano decidere come spendere i soldi in arrivo.

Carfagna la silenziosa

Considerata dai detrattori con un piede fuori dalla porta di Forza Italia dai tempi in cui ha fondato l’associazione “Voce libera”, la ministra del Sud Mara Carfagna oggi si gode una posizione privilegiata tra i ministri nello scontro tutto interno al partito. Silenziosa rispetto agli altri ma assolutamente d’accordo con loro, ha scelto di limitare le dichiarazioni perché, come spiega chi la conosce, «lei dice queste cose da anni. Lo status quo sta penalizzando Forza Italia, che non si può appiattire su un sovranismo che non fa parte della sua identità».

Lei si sente «donna di destra», per questo non avrebbe intenzione di accettare le continue lusinghe di Matteo Renzi e Carlo Calenda, ma non è disposta a compromessi culturali con la Lega nemmeno se a dettare la linea sono direttamente i vertici del partito.

Solo nei confronti di Berlusconi continua a esprimere totale lealtà, anche nel sostegno alla sua candidatura al Colle, ma chi la conosce dice che lei non si aspettava di venire nominata ministra, ben conoscendo l’ostracismo che parte del suo stesso partito esercita nei suoi confronti. Invece l’investitura di governo, promossa da Mario Draghi che ha voluto puntare sulle figure più moderate, ne ha rafforzato le convinzioni: che la linea liberale sia quella più pagante, soprattutto in prospettiva futura.

Dal ministero del Sud ha lavorato per tessere rapporti in più direzioni. Essendo il suo un dicastero senza portafoglio, è stata abile a trovare sponde, soprattutto tra i tecnici più vicini al premier. È rimasta al fianco della ministra della Giustizia Marta Cartabia per gestire la creazione della commissione per rendere più efficace la giustizia del Sud, che a suo tempo aveva fatto infuriare la magistratura meridionale.

Ha fatto da spalla al ministro dell’Economia, Daniele Franco, organizzando il forum “Sud, progetti per ripartire” e ha ottenuto che il 40 per cento di fondi del Pnrr fosse destinato al meridione. Con il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, ha concordato 300 milioni di euro per migliorare la rete stradale delle aree interne al sud. Tutti passi che la garantiscono, in veste sempre più istituzionale, anche per il futuro.

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