Scendono le quotazioni di Mario Draghi al Quirinale ma soprattutto colano a picco quelle del ministro dell’economia a palazzo Chigi. Da mesi Daniele Franco viene indicato dai boatos di palazzo come il papabile sostituto del presidente del consiglio se questi traslocasse al Colle. Ma le ultime pasticciate performance del titolare del Mef con i rappresentanti della maggioranza fanno circolare un diffuso scetticismo sull’eventualità.

Dal lato sinistro le distanze si consumano sulla riforma fiscale, dopo l’incontro di lunedì con i sindacati. Un match finito male: Cgil Cisl Uil si sono dichiarate «deluse» dal provvedimento, presentato peraltro solo a parole, «come Omero», secondo l’evocativa espressione del leader Uil Pierpaolo Bombardieri, cioè senza allegati e schede. Per Maurizio Landini, segretario Cgil, la riduzione dell’Irpef per fasce di contribuenti con redditi dai 60 mila ai 200 mila euro uguale a quella di lavoratori con 20-25 mila euro di reddito «è il contrario della progressività». Qualche ruvidità nel dialogo non ha migliorato il clima.

Il Pd si sente scoperto sul lato del lavoro dipendente. Ed è preoccupato. Per il responsabile dell’economia Antonio Misiani «serve una sintesi con le parti sociali». E il vicesegretario Peppe Provenzano avanza qualche perplessità sul ministro: «C’è un problema di metodo, a quanto risulta dalla riunione al Mef ai sindacati non sono state nemmeno fatte vedere le tabelle», ed è sbagliato perché secondo i tecnici del Mef «rispetto alla riduzione delle aliquote molto di questa progressività verrà dalla ridefinizione della curva delle detrazioni: ma questo va spiegato». All’uscita dell’incontro della delegazione dem a palazzo Chigi il ministro del lavoro Andrea Orlando annuncia che da parte di Draghi «c’è la volontà di proseguire il confronto con i sindacati». Malgrado gli spigoli del collega Franco.

Dalla parte opposta lancia segnali di malumore anche Forza Italia. Stavolta il tema sono gli emendamenti alla manovra in discussione al senato. Il coordinatore Antonio Tajani lancia un appello che è anche un avviso: «Noi vogliamo evitare il Vietnam parlamentare ma deve esserci un rispetto di tutte le forze politiche. Il ministro Franco metta attenzione alle nostre proposte, altrimenti saremo costretti a fare delle scelte conseguenti».

Quelle delle forze politiche sono obiezioni di merito verso un governo accusato di non ascoltare neanche i suoi ministri politici. Ma visto che il gioco del Colle si intreccia ormai con il lavoro delle camere, tanto più nel pieno delle “consultazione” del premier con le forze di maggioranza, sono anche segnali della scarsa propensione della maggioranza, in entrambi il suoi lati, di ritenere che Franco possa assolvere al ruolo che ora è di Draghi.

A esplicitare il concetto, in un tweet, ieri Carlo Calenda si è rivolto a Enrico Letta perché si esprima sulla richiesta al presidente del consiglio di restare a palazzo Chigi fino al 2023, a cui si sono già associati Berlusconi, Conte e Salvini (con un lapsus poi corretto il leader di Azione dimentica di chiedere anche a Matteo Renzi), stringendo un patto di fine legislatura: «Il problema fondamentale è conservare Draghi in un anno che sarà decisivo per Pnrr e pandemia». Il segretario Pd non risponde direttamente, ma dal Nazareno viene ricordato che lo stesso auspicio «Letta lo ha avanzato sin dal 14 marzo 2021» e cioè il giorno della sua elezione. Ma ieri al senato, in commissione, la maggioranza si è di nuovo divisa, stavolta su una legge che regola le lobby: M5s e Pd da una parte, Lega Forza Italia e Iv dall’altra. Per questo la conclusione del ragionamento che arriva dalla sede nazionale dei dem non va del tutto nella direzione della richiesta di Calenda: «Gli ultrà di Draghi farebbero bene a capire che il modo migliore per sostenerne l’esperienza è non indebolire l’azione di governo ora, e neanche non buttare il suo nome nel frullatore del dibattito disordinato di queste settimane».

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