Nello statuto del Partito democratico la frase “chiedere scusa” non compare. Non è tra le condizioni necessarie per rientrare nella categoria degli iscritti/iscritte che, si legge, sono «le persone che, cittadine e cittadini italiani nonché cittadine e cittadini dell’Unione europea residenti ovvero cittadine e cittadini di altri paesi in possesso di permesso di soggiorno, si iscrivono al partito sottoscrivendo il manifesto dei valori, il presente statuto, il codice etico, e accettando di essere registrate nell’anagrafe degli iscritti e delle iscritte oltre che nell’albo pubblico delle elettrici e degli elettori».

Quindi, se l’ex Iena ed ex M5s Dino Giarrusso volesse mai iscriversi al Pd, non avrebbe alcun obbligo statutario di «chiedere scusa» come pure gli chiedono, tra gli altri, i candidati alla segreteria Paola De Micheli e Stefano Bonaccini. Certo non sfugge che Giarrusso abbia militato a lungo tra coloro che hanno accusato il Pd di qualsiasi nefendezza con toni e parole difficili da cancellare.

Ma proprio qui sta il punto: un partito che punta a rappresentare sensibilità diverse e spesso distanti tra di loro, un partito che si dichiara aperto al contributo di tutte e tutti, ha bisogno di quelle scuse? O dovrebbe semplicemente festeggiare la conversione sulla via del “nuovo Pd”?

Carissimi ex

Non risulta, ad esempio, abbiano mai chiesto scusa tutti quelli che, in questi anni, si sono iscritti al Pd per poi utilizzarlo come un comodo taxi. Il più famoso è di certo Carlo Calenda, tessera del partito mostrata con orgoglio in una foto scattata nel 2018 con l’allora segretario Maurizio Martina. Se n’è andato subito dopo aver ottenuto la candidatura e l’elezione al parlamento europeo.

Da allora non perde occasione per criticare e attaccare il Pd. Eppure i democratici, senza pretendere scuse, fanno di tutto per allearsi con lui (le regionali del Lazio sono solo l’ultimo esempio).

Nessuna scusa nemmeno da Beatrice Lorenzin, berlusconiana al punto da spiegarci che Karima El Mahroug, al secolo Ruby Rubacuori, era la nipote di Hosni Mubarak. Oggi è senatrice del Pd con in tasca regolare tessera consegnata dall’ex segretario Nicola Zingaretti.

Che dire poi di un altro protagonista della stagione berlusconiana come Pier Ferdinando Casini? Lui, onestamente, dice di non avere la tessera del Pd: «Non la prendo per rispetto del popolo del Pd». Gli elettori del Pd, con altrettanto rispetto, alle elezioni dello scorso settembre, gli hanno dato 173.500 delle 232.092 preferenze che gli hanno permesso di essere eletto come senatore (è dal 1983 che siede ininterrottamente in parlamento). 

In fondo si sa, funziona così, se il partito candida, il popolo vota. Era la speranza di Luigi Di Maio, ex M5s come Giarrusso, che alle ultime elezioni, grazie al sostegno del Pd, ha ottenuto una candidatura nel collegio uninominale di Napoli Fuorigrotta. Oggi smentisce le indiscrezioni che lo danno prossimo tesserato dem insieme all’ex ministro Cinque stelle, Vincenzo Spadafora. 

Agli atti non risultano scuse per aver definito il Pd «il partito di Bibbiano», con riferimento non troppo velato al caso dei presunti illeciti sugli affidi di bambini. Nessuno gliele ha ufficialmente chieste. O, meglio, gliele hanno chieste i democratici di Bibbiano. Inascoltati. Magra consolazione: le 27.697 preferenze ottenute dagli elettori del Pd non sono bastate a farlo eleggere.

Ora è vero che tra iscritti e candidati c’è differenza. Ma il Pd dovrebbe forse essere più attento alla credibilità dei secondi e ai contenuti che trasmette attraverso di loro piuttosto che al Giarrusso di turno. Il quale, forse in cerca di una ricandidatura a Bruxelles, può di certo chiedere scusa per le tante cose, sbagliate, dette e fatte in questi anni (e non solo nei confronti del Pd). Nel frattempo i dirigenti dem, magari, possono chiedere scusa ai propri elettori.

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