Il primo passo indietro del governo di Giorgia Meloni, arriva, inequivocabile. La valanga di critiche che si è abbattuta sulle norme anti rave consiglia alla premier un gesto di ripensamento. Perché da quando il testo del decreto licenziato dal primo consiglio dei ministri è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale, peraltro a velocità record, le preoccupazioni per la vaghezza della norma e la durezza delle pene destinate agli organizzatori dei free party sono piovute un po’ da tutte le parti.

Dalla magistratura alle camere penali, fronte inconsueto. Passando per l’Anpi, l’associazione dei partigiani che si è dichiarata «pronta assumere ogni iniziativa legittima a tutela della Costituzione e delle libertà dei cittadini, a cominciare dalla potenziale incostituzionalità del provvedimento».

Quasi le stesse parole usate di metalmeccanici Cgil: «La Fiom tutelerà la libertà dei cittadini e dei lavoratori, sancita nella Costituzione, mettendo in atto le iniziative necessarie. In questo momento la vera urgenza è aprire un confronto sulle crisi industriali, salariali e occupazionali, più che emanare un decreto legge sui raduni. Il governo non restringa gli spazi di libertà ed affronti le emergenze del paese».

Tensioni nel governo

Prima però che dall’esterno, il segnale di pericolo arriva da dentro il governo. Che, attutite quanto basta, si erano già sentite al consiglio dei ministri dove, prima di approvare il provvedimento, il forzista ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani aveva fatto notare che usare le intercettazioni sugli organizzatori di rave è spropositato. Il decreto lo consente, e le smentite ufficiali si sono dovute arrendere al muro dei pareri di giuristi, magistrati e avvocati. Forza Italia, d’accordo in linea di principio con la linea della legalità, ha lanciato però segnali di preoccupazione.

Fino a che il neosottosegretario Paolo Sisto è andato davanti alle telecamere: «Nessuno vuole punire le manifestazioni di piazza», ha assicurato, parlando a suocera perché nuora intenda, ma «bisogna evitare a tutti i costi che questa norma possa essere applicata alla legittima manifestazione di dissenso, dalla manifestazione sindacale a quella scolastica. Quindi credo che serva un livello di attenzione tecnico-normativo per evitare l’equivoco che è sempre in agguato». È l’ammissione di qualche falla nel testo, e di fatto l’annuncio di modifiche della stessa maggioranza in sede di conversione.

In serata parla il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Guardasigilli garantista che già non ha vita facile nell’esecutivo: «La norma tutela i beni giuridici dell’incolumità e della salute pubblica, nel momento in cui questi beni sono esposti ad un pericolo», dice in una nota, «Essa non incide, né potrebbe incidere minimamente sui sacrosanti diritti della libera espressione del pensiero e della libera riunione, quale che sia il numero dei partecipanti. La sua formulazione complessa è sottoposta al vaglio del parlamento, al quale è devoluta la funzione di approvarla o modificarla secondo le sue intenzioni sovrane». «Complessa», dunque: un modo implicito ed elegante per accogliere le critiche dei colleghi magistrati.

Tutta colpa della sinistra

Meloni si è presto resa conto della buccia di banana su cui stava scivolando, non un bel biglietto da visita alla vigilia del suo esordio sui tavoli di Bruxelles, dove oggi incontrerà la presidente del parlamento europeo Roberta Metsola e la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Formalmente non si rimangia nulla, anzi, assicura su facebook, «è una norma che rivendico e di cui vado fiera». E le critiche da sinistra sono «strumentalizzazioni sul diritto a manifestare che lasciano il tempo che trovano». Ma alla fine deve «rassicurare tutti i cittadini - qualora ce ne fosse bisogno - che non negheremo a nessuno di esprimere il dissenso».

E di rassicurazioni c’è bisogno. Perché oltre al testo incriminato, c’è anche il clima che gli zelanti sostenitori stanno alimentando nel paese, peraltro dopo l’inguardabile manganellamento degli studenti dell’università La Sapienza di Roma. Altro che «pacificazione» nazionale.

Sabato la Capitale sarà attraversata dal corteo dei pacifisti, a cui partecipano anche le principali forze d’opposizione, Pd e Cinque stelle. E il sindacato, quello che la neoministra del lavoro Marina Calderone ha invitato al confronto. Al di là delle esibizioni di forza, anche a palazzo Chigi si è fatta largo la convinzione che alimentare timori e tensioni non è interesse di nessuno: neanche del governo. Tantomeno trasformare la manifestazione per una pace giusta in Ucraina nella prima manifestazione contro l’esecutivo.

Meloni non arriva certo al «ritiro dell’art.434 bis» del codice penale che chiede il segretario del Pd Enrico Letta, riuscendo dal canto suo a mettersi di fatto alla testa delle opposizioni. Ma l’errore è ammesso. Lo sottolinea l’ex ministro Andrea Orlando, che era stato il primo a segnalare che il testo era equivoco: «Le dichiarazioni di esponenti del governo a proposito del decreto rave, che rinviano all’esame parlamentare per “evitare l’equivoco tecnico amministrativo” sono un riconoscimento che la norma è sbagliata e pericolosa. Grazie per l’onestà intellettuale», twitta all’indirizzo di Sisto. Ma conclude: «La conseguenza è il ritiro». Il ritiro non ci sarà, ma in aula toccherà alla maggioranza mettere una toppa.

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