Il due per cento del Pil (Prodotto interno lordo) per le spese militari è come il tre per cento del trattato di Maastricht, ma alla rovescia.

Entrambi indicano un limite percentuale astratto, nel caso di Maastricht quasi cervellotico. Ma mentre il tre per cento imponeva agli stati dell’Unione europea di non contrarre debiti oltre quella soglia, cioè stabiliva un tetto alla spesa pubblica, al contrario il due per cento è un incentivo a spendere rivolto dalla Nato ai 27 paesi del patto.

Sul tre per cento il dibattito in Europa e in Italia è stato infinito e ha diviso gli animi e la politica tra chi riteneva fosse un vincolo utile, soprattutto per un paese indisciplinato come l’Italia, incline a moltiplicare la spesa più per le clientele e le lobby che per lo sviluppo e la crescita. E chi riteneva al contrario fosse un cappio al collo per la politica di un paese sovrano, soprattutto per la politica economica.

Anche il due per cento Nato rischia di diventare uno spauracchio o un atto di fede se inteso acriticamente, di fatto sta già provocando nuove contorsioni nella politica, soprattutto tra i Cinque stelle, che si ripercuotono sul governo.

Alla base di questa percentuale c’è l’idea che i più ricchi (con la ricchezza misurata dal Pil, indicatore sul cui valore gli economisti dibattono da anni) devono spendere di più per le armi e la difesa. Devono rafforzarsi anche se in teoria non ne avrebbero bisogno, prescindendo dalle esigenze effettive di sicurezza in relazione alla minaccia militare reale che li riguardi.

Quindi tutti i 27 paesi aderenti alla Nato devono impegnare nei propri bilanci statali per le spese militari il 2 per cento della ricchezza prodotta ogni anno. Che serva o no.

Tre voci di spesa

Le spese per la difesa sono composte da tre grandi voci: personale, esercizio e investimenti per le armi. Secondo la tripartizione classica, all’esercizio e alle armi va il 25 per cento ciascuno, il restante 50 per cento al personale.

La spesa per il personale è data grosso modo dalle retribuzioni dei militari, dal soldato ai capi di stato maggiore. Quella per l’esercizio prevede l’addestramento, la manutenzione delle armi in dotazione, le esercitazioni periodiche.

Queste due voci sono abbastanza anelastiche, cioè relativamente costanti, destinate a non cambiare repentinamente nel corso degli anni. Diverso il discorso per le armi in senso stretto.

Per questa voce le variazioni possono essere davvero consistenti a seconda che si autorizzi o no l’implementazione dei sistemi d’arma esistenti, che si avvino nuovi grandi progetti o si decida di acquistare nuove armi.

Il caso degli f35

Tra i casi recenti che hanno comportato un impegno aggiuntivo di spesa pubblica il più controverso è stato quello degli F35, cacciabombardieri di quinta generazione (cioè «invisibili» ai radar) acquistati da alcuni paesi europei della Nato, Italia compresa, e preferiti agli Eurofighter, jet militari sviluppati e prodotti da industrie europee di cui di fatto è stato anticipato il pensionamento scartando l’idea di un aggiornamento tecnologico tarato sulle nuove esigenze difensive.

Di fatto le spese aggiuntive per nuovi sistemi d’arma vanno a vantaggio delle industrie delle armi e nel caso dei costosi F35 hanno beneficiato l’azienda statunitense Lockheed Martin (ogni esemplare costa circa 110 milioni di euro).

In Europa quello della difesa è un settore economico molto importante che dà lavoro a circa 500mila persone, che salgono a 1,2 milioni se si considerano i posti indiretti. Ogni grande paese europeo ha le sue imprese degli armamenti, impegnate spesso anche in settori civili. In Italia, per esempio, Leonardo e Fincantieri, in Francia Airbus, in Germania Krauss-Maffei Wegmann.

Le polemiche italiane

Il dibattito sul 2 per cento che si è sviluppato in Italia sembra spesso prescindere da questi dati di fatto e sembra pure non tenere conto del progetto di una difesa comune europea. Quest’ultimo è stato rilanciato due settimane fa dal vertice di Versailles per superare la frantumazione attuale degli eserciti europei e innescare un percorso di maggiore efficacia, con una spesa minore grazie alle economie di scala.

Sul piano politico il nodo del due per cento ha squassato il Movimento 5 selle, mentre negli altri partiti le divisioni ci sono, anche se risultano meno evidenti La Lega non ha dato segnali di disagio, anche se è evidente la contraddizione tra il voto a favore dell’aumento di spese per la difesa e le ostentate dichiarazioni del leader, Matteo Salvini, diventato all’improvviso pacifista dopo l’aggressione russa all’Ucraina.

Nel Pd, all’interno dei gruppi parlamentari, c’è molto fermento anche se confinato sotto traccia. Sempre a sinistra sono stati tantissimi i distinguo, dall’Associazione dei partigiani (Anpi) al segretario della Cgil, Maurizio Landini.

Alcuni giorni fa alla Camera i Cinque stelle hanno votato con la maggioranza un atto di indirizzo a favore dell’aumento progressivo delle spese per la difesa fino al due per cento del Pil, cui si è aggiunto dall’opposizione Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

Nei giorni successivi il leader M5s, Giuseppe Conte, ha però fatto sapere di averci ripensato senza però spingersi fino alla minaccia di una crisi di governo.

Mettendo tra parentesi tutte le volte che i suoi governi hanno scelto di aumentare le spese militari, Conte si è forse voluto rifare alle posizioni del Movimento ai tempi del primo governo giallo-verde quando la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, il quota M5s, aveva frenato le spese per gli armamenti, rinviando alcuni programmi di sistemi d’arma decisi in precedenza.

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