A un’anno dall’inizio dell’esperienza di governo è tempo di bilanci e quello sulla qualità dei testi legislativi approvati in consiglio dei ministri difficilmente può essere considerato positivo.

Nella foga interventista della premier Giorgia Meloni, infatti, si contano ormai molte norme che – uscite dal cdm in una forma e come tali enfatizzate politicamente – sono state o dovranno essere modificate in parlamento. Per non incorrere in rischi di costituzionalità, perché non condivise a livello di maggioranza o proprio perché scritte in modo tale da provocare più danni di quelli che si proponevano di correggere.

In questo senso, la norma sugli extraprofitti delle banche è solo l’ultimo esempio che sta mandando in tilt la maggioranza, proprio alla vigilia di una complicatissima legge di Bilancio ancora tutta da scrivere e a cui il gettito prodotto dalla tassa sulle banche dovrebbe far comodo.

La tassa sugli extraprofitti

Sul testo del decreto che introduce la tassa sugli extraprofitti delle banche è piovuta una pioggia di emendamenti, i più insidiosi dei quali depositati da Forza Italia.  Nessuno stupore: il decreto è arrivato in parlamento all’indomani del blitz in cdm (dove pure è stato votato all’unanimità), in cui era stato inserito alla voce “varie ed eventuali” all’ordine del giorno, e dopo ben tre interviste in cui Meloni si assumeva il ruolo di regista dell’operazione, spiegando di non averne parlato con il leader di Forza Italia e vicepremier, Antonio Tajani, «perché la notizia non doveva circolare troppo». FI, partito che si definisce liberale, contro il testo ha covato tre ordini di problemi: uno culturale, uno di interesse per così dire familiare visto che la tassa colpisce anche Mediolanum, la banca di cui ha una partecipazione la famiglia Berlusconi, e uno di natura costituzionale. Di qui gli 11 emendamenti azzurri, che dovrebbero limitare la portata della norma e correggerne le sbavature.

Il rischio di incostituzionalità, infatti, è il più serio perché è stato sollevato dai tecnici del servizio Bilancio del Senato, i quali hanno fatto presente che esiste «un possibile rischio legato all’eventuale incompatibilità costituzionale della disposizione», che potrebbe essere dichiarato «dopo l’avvenuto introito e la conseguente spesa delle somme in questione, il che determinerebbe un peggioramento dei saldi, corrispondente alle risorse che dovessero essere restituite alle banche per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale». Un rischio che ha subito intuito anche l’Abi, l’associazione bancaria italiana, il cui direttore generale ha già ipotizzato che la norma sia «incompatibile con la disciplina comunitaria» e «in violazione del principio di libera concorrenza nella prospettiva di una discriminazione».

Ora tocca al duo formato da Meloni e dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, il cui ufficio legislativo ha materialmente scritto la norma, capire il da farsi: come e quanto modificare il testo per evitare inciampi successivi garantendosi comunque un flusso di denaro sufficiente a colmare almeno una parte dei buchi ancora aperti nella finanziaria.

Intercettazioni

Il governo, tuttavia, ha la tendenza a incappare in norme di dubbia costituzionalità. Lo stesso rischia infatti di succedere anche con un altro decreto legge, approvato nel cdm di agosto, in merito alle intercettazioni. 

La norma, chiesta a gran voce dalla magistratura e soprattutto dalla procura nazionale antimafia, riduce la portata degli effetti di una sentenza di Cassazione ha dichiarato illegittime le intercettazioni disposte nei confronti di un imputato che non era accusato direttamente di associazione mafiosa, bensì di un reato ad aggravante mafiosa. Con il rischio, secondo le toghe, che questa inutilizzabilità depotenziasse molti processi in corso.

Tuttavia il decreto ha già sollevato parecchie critiche. Di natura politica sempre da parte di Forza Italia, da sempre contraria all’allargamento dell’utilizzo delle intercettazioni che proprio il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva sempre promesso al contrario di limitare. Ma anche di natura tecnica e di costituzionalità, come ha fatto presente in audizione Alfonso Celotto, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Roma Tre: «Bisogna capire se si tratta di un'interpretazione autentica, caso in cui andrebbe a invadere l'attività giurisdizionale. Se invece è semplicemente una norma innovativa crea problema il fatto che si estende ai processi in corso, violando l'articolo 25, comma 2 della Costituzione. È un punto che il Parlamento deve sciogliere per non incorrere in gravi vizi di incostituzionalità».

Risultato: un decreto legge che doveva servire a calmare le acque da mesi agitate tra il governo Meloni e la magistratura rischia di diventare l’ennesimo inciampo da correggere in corsa.

L’abuso d’ufficio

Un rischio, quello di incostituzionalità, paventato anche per il cosiddetto ddl Nordio, che però è stato approvato in cdm nella forma di disegno di legge e dunque era previsto che il parlamento potesse proporne miglioramenti.

In questo caso il passaggio incriminato è l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, che trova convergenza trasversale in FI, Azione e Italia Viva ed è sostenuto con convinzione dal ministro Nordio, mentre una parte della maggioranza, in particolare dentro la Lega e FdI, cova scetticismo. Anche in questo caso, alcuni giuristi hanno espresso dubbi di costituzionalità dell’abrogazione tout court di questo reato, a fronte del fatto che i trattati europei impegnano l’Italia nella lotta alla corruzione. Secondo Nordio, nessun trattato impone l’esistenza di un reato specifico di abuso d’ufficio e il nostro ordinamento sarebbe già sufficientemente tutelante.

Esiste però una proposta di direttiva del parlamento e del consiglio europeo, relativa alla lotta contro la corruzione, che all’art. 11 richiede agli Stati membri di prevedere come reato proprio l’abuso d’ufficio, definito “abuse of functions”. Anche in questo caso le interpretazioni potrebbero divergere, ma la realtà è che dentro la maggioranza esiste chi ritiene più prudente ritornare sui propri passi e circoscrivere di più il reato ma evitarne la cancellazione.

Questi tre casi risalgono agli ultimi mesi, ma proprio all’inizio dell’attività del governo anche il cosiddetto ddl Rave ha subito lo stesso iter: approvato all’unanimità in consiglio, mugugni da parte di FI e modifica sostanziale in aula per correggerne alcune storture. Certo, il meccanismo parlamentare lo permette e lo spin comunicativo della maggioranza parla sempre di ritocchi «migliorativi» ai testi approvati in cdm. Un dato di fatto, però, è che tutti questi testi vengono presentati con grande enfasi dalla premier, salvo poi scontrarsi contro dati di realtà e con il rischio di venire rinviati alle camere da parte del Quirinale in caso di dubbi di costituzionalità.

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