Il 4 aprile, durante le operazioni di soccorso, mentre l’equipaggio della Mare Jonio – nave dell’ong Mediterranea – stava distribuendo i salvagenti, è arrivata una motovedetta della Guardia costiera libica e ha aperto il fuoco, creando confusione e panico tra le persone che venivano soccorse. Mentre gli operatori cercavano di soccorrere i naufraghi, i libici hanno abbassato le armi, puntando le persone in mare e i membri dell’equipaggio.

In tutto sono state salvate 58 persone, molte «sotto shock e alcune con segni di tortura», ha spiegato Luca Casarini di Mediterranea. Non è chiaro se ci siano stati dispersi. «Sembra non esserci alcuna testimonianza sufficiente a fermare un’intenzione politica chiara», dice Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch Italy, ong che da anni opera nel Mediterraneo centrale e fa parte della flotta civile, sempre più ristretta a causa delle politiche di criminalizzazione del governo. «Le attuali politiche italiane ed europee trattano la migrazione come polvere da spazzare sotto un tappeto».

Pensa che sia diminuita l’attenzione mediatica e politica su episodi così gravi?

Effettivamente aprendo la rassegna stampa ieri mattina ho pensato questo. Non me ne sono sorpresa, perché purtroppo c’è un livello di assuefazione alto rispetto alla violenza delle politiche migratorie nel Mediterraneo, così come rispetto al tema delle morti. Io in questo momento mi trovo a Lampedusa dove, durante gli sbarchi, ormai ripresi ininterrottamente da un paio di giorni, è venuta a mancare una ragazza di vent’anni, qualche giorno prima è stata dispersa una neonata di sei mesi. E non mi sembra che questa cosa abbia creato scalpore. Tutte storie che arrivano, ma vengono raccontate sempre meno. Da anni documentiamo questi episodi, in alcuni casi li abbiamo subiti e in altri li abbiamo testimoniati con le missioni di monitoraggio aereo, un’azione di denuncia importante. Le nostre testimonianze sono state portate davanti alla Commissione europea, alle commissioni Esteri e Difesa in Italia, proprio nel momento in cui venivano discussi gli accordi con la Libia e i finanziamenti delle missioni militari internazionali dell’Italia all’estero. Ma sembra non esserci alcuna testimonianza sufficiente a fermare un’intenzione politica chiara, di contenimento. Le attuali politiche italiane ed europee trattano la migrazione come polvere da spazzare sotto un tappeto, che si chiama nord Africa. Al costo di scendere a compromessi assolutamente inaccettabili, quando stipulano accordi con paesi terzi. Com’è possibile accettare che le autorità libiche sparino addosso a cittadini europei, che stanno portando avanti un’operazione di soccorso nel pieno rispetto del diritto internazionale? E lo facciano peraltro da motovedette che appartenevano alle autorità italiane. Come è possibile definire soccorso in mare l’operazione di aggressione di ieri? Ricordo un episodio del 6 novembre 2017, pochi mesi dopo l’accordo con la Libia. Durante un naufragio, ci spararono. C’erano persone in acqua e almeno 20 di loro hanno perso la vita, altre sono state soccorse da Sea Watch e altre ricondotte in Libia. In quell’occasione c’era anche un elicottero della Marina militare italiana, si sentiva il pilota gridare alla motovedetta libica di spegnere il motore perché stavano uccidendo una persona. «Stop the engine, stop you are killing a person!», erano le parole di un ufficiale che si trovava davanti a una situazione simile a quella di ieri. Però allora questo caso fece notizia e partì un appello importante alla Cedu.

Il problema è la modalità di racconto o ci si è abituati a questa violenza?

Entrambe le cose. Sicuramente c’è assuefazione, e purtroppo credo che dobbiamo prendere atto del fatto che lo stato di diritto venga calpestato, dal governo, dalle politiche nazionali e sovranazionali. Senza conseguenze. Quando si parla di immigrazione si tende a considerarlo un fenomeno che non ci riguarda, ma quando si tratta del rispetto dello stato di diritto, anche se applicato al tema della migrazione, ci riguarda da vicino. Ci riguarda il fatto che più di una sentenza della Corte di cassazione venga completamente ignorata dallo stato italiano. Poi c’è un tema di strumentalizzazione rispetto a quello che accade, alla narrazione della migrazione in tutti questi anni: o si demonizza o si vittimizza, senza mai dare realmente una soggettività. Una narrazione, usata a scopo propagandistico dalla destra, ha insinuato il dubbio e la diffidenza in molte persone sugli interventi della società civile in mare. Risulta scomodo a chi non vorrebbe che si raccontasse quello che accade nel Mediterraneo vedere come ufficiali libici supportati dall’Italia e dall’Ue, a bordo di una motovedetta donata dall’Italia, a cittadini italiani che stanno soccorrendo persone in mare è vergognoso. È un tema di dignità del paese.

Mediterranea ha chiesto l’intervento immediato del governo per fermare i comportamenti criminali della cosiddetta guardia costiera libica. Che responsabilità hanno le istituzioni?

Le responsabilità sono enormi, perché abbiamo armato la Guardia costiera. Abbiamo attivamente creato la situazione di ieri. Non dico che ci sia un’indicazione di sparare in mare, anzi è motivo di imbarazzo, ma quella situazione è stata voluta, creata, supportata dal governo. Dal 2017 a oggi. Questa responsabilità ha un nome ed è il Memorandum di intesa con la Libia. Purtroppo però sempre di più il riferimento al diritto internazionale e ai diritti umani, quando c’è, viene messo come decorazione. Quando vengono riportati in Libia vengono rinchiusi nei centri di detenzione, puoi uscire pagando una multa, con lavori forzati oppure essere acquistati da un libico che poi potrà disporre di te come crederà. Nella maggior parte dei casi non avranno altra possibilità se non imbarcarsi di nuovo. Con queste politiche stiamo alimentando un ciclo di abusi, arricchendo i trafficanti che diciamo di combattere, sulla pelle delle persone.

Sembra essere diventata una questione esclusivamente umanitaria, non più una questione politica.

Gli spazi di denuncia e di cambiamento si sono molto ridotti, basta vedere quanto rumore fanno queste notizie e quali sono le conseguenze. Purtroppo la verità è che queste notizie non portano a un cambio di politica.

Il governo, nonostante la presenza a bordo del cadavere di un 17enne morto poche ore dopo il soccorso, aveva assegnato come porto di sbarco alla Sea-Watch 5 Ravenna, costringendola a 4 giorni di navigazione.

È molto pericoloso abituare l’opinione pubblica a queste politiche, far sì che il corpo di un ragazzo possa rimanere su una nave a decomporsi per giorni, per la sola volontà di osteggiare il soccorso civile. La vicenda si è poi conclusa diversamente perché siamo riusciti a ottenere lo sbarco in Sicilia. Questo episodio ci racconta quanto sia ancora importante denunciare e fare rumore.

Chi sono oggi gli interlocutori politici delle ong?

L’attività di soccorso in mare prima aveva una risonanza politica più forte. Ma c’è stata anche una strumentalizzazione, come dicevo prima. Noi continuiamo ad avere interlocuzioni con le figure politiche che si sono sempre interessate al tema, e che cercano di portare queste questioni in parlamento. Ma il livello generale di interesse è minore, rispetto ad anni fa. Continuano a ripetersi situazioni estreme senza però che vi sia una impatto. Vediamo immobilismo di fronte alle nostre azioni di denuncia, alle tragedie o agli atti di violenza. È un tema alto nell’agenda europea ma le politiche si sviluppano in direzione opposta. In generale, penso che ci sia un problema di narrazione. Manca lo spazio a una narrazione positiva della migrazione. Quello che succede in mare è tragico, ma manca un lavoro di soggettivizzazione di queste persone. Dare spazio alla loro voce, al dopo, a ciò che succede di positivo.

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