Ancora una volta un rimpallo di responsabilità sui soccorsi è la “giustificazione” dell’ennesima tragedia del mare. Il servizio di allerta sulle imbarcazioni nel Mar Mediterraneo, Alarm Phone, nella notte dell’11 marzo aveva segnalato le difficoltà di un barcone partito dalla Libia al Centro Nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma, a quello maltese e a quello libico. Ma nessuno ha inviato mezzi di salvataggio.

In una nota la Guardia costiera ha spiegato che l’evento è avvenuto «al di fuori dell’area di responsabilità Sar italiana» - la nave si trovava nella zona Sar libica – rilevando al contempo «l’inattività degli altri Centri nazionali di coordinamento e soccorso marittimo interessati». Il fatto che la nave fosse in area Sar libica e che altre autorità marittime non siano intervenute giustifica il mancato invio di mezzi della Guardia costiera, come sembrerebbe evincersi dal comunicato di quest’ultima? Va chiarito, innanzitutto, il quadro delle regole esistenti in tema di responsabilità dei soccorsi in mare.

La zona grigia dei soccorsi nel Mediterraneo

Ai sensi della Convenzione di Amburgo (Sar, Search And Rescue, 1979), tutti gli stati costieri del Mediterraneo sono tenuti ad avere una propria “zona Sar”, cioè di ricerca e soccorso. Dell’organizzazione delle operazioni in ogni zona Sar, in caso di incidente, deve farsi carico il Centro di coordinamento marittimo dello Stato responsabile di quella zona, secondo le regole delle Linee guida sul soccorso in mare dell’Organizzazione marittima internazionale (Imo, agenzia delle Nazioni Unite, 2004).

Nel giugno 2018, l’Imo ha iscritto nel proprio registro la zona Sar libica: così la Libia è divenuta formalmente competente per l’area di propria pertinenza. Ma ciò ha determinato un cortocircuito: la Libia non può portare a conclusione le operazioni di soccorso poiché non è un Paese sicuro. Infatti, secondo le convenzioni internazionali, il paese responsabile della zona Sar in cui è accaduto l’evento critico deve fornire un posto sicuro (place of safety, Pos), cioè un luogo ove siano garantiti ai naufraghi la cura dei bisogni primari e l’esercizio dei diritti fondamentali, tra cui quello di asilo. È in tale posto che il soccorso si conclude. Ma la Libia non ha un proprio “place of safety”, quindi non può portare a termine un’operazione di salvataggio.

Infatti, la Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e, come evidenziato più volte anche dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), migliaia di migranti presenti in Libia versano in condizioni di detenzione arbitraria e sono sottoposti a torture ed a trattamenti disumani e degradanti in violazione dei loro diritti umani. Dunque, se il Centro libico di coordinamento designa un proprio porto per l’approdo di una nave in difficoltà, il comandante della nave può, e anzi deve, non conformarsi all’indicazione, com’è stato espressamente riconosciuto dai tribunali che si sono occupati del caso di Carola Rackete, comandante della Sea Watch 3. Quindi, di fatto, un’operazione di soccorso coordinata dalla Libia non può concludersi, perché è inimmaginabile che la Libia indichi il porto di un altro Paese, avendo interessi anche economici a tenere i migranti nei propri centri di detenzione. Pertanto deve necessariamente intervenire un altro centro di coordinamento per fornire un Pos.

Dunque, la zona Sar libica è l’area grigia dei soccorsi nel Mediterraneo. Affermare che in quella zona è la Libia a doversi occupare dei salvataggi, pensando così di declinare la propria competenza, come spesso fanno alcuni stati costieri europei, contrasta con le regole internazionali. In primo luogo, le zone Sar non sono acque territoriali, sulle quali ogni Paese ha sovranità e nella cui gestione nessun altro Stato può ingerirsi. Le zone Sar sono acque internazionali, e la divisione in tali zone è funzionale esclusivamente al coordinamento dei soccorsi. In secondo luogo, aspettare che la Libia assuma il comando dei soccorsi, indicando un porto libico per l’approdo, cioè un posto ove i diritti umani non sono tutelati - dunque, ove i migranti non possono e non devono sbarcare - significa “legittimare” una sorta di respingimento dei naufraghi salvati verso un paese ove la loro vita o la libertà sarebbero minacciate (Convenzione di Ginevra, art. 33).

Il dovere di soccorso in mare

E non è tutto. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Montego Bay), stabilisce che ogni Stato «ha il dovere di (a) prestare assistenza a qualsiasi persona trovata in mare (…); (b) procedere il più velocemente possibile al salvataggio delle persone in difficoltà, se informato del loro bisogno di assistenza» (art. 98). Le ricostruzioni di casi di naufragi in mare spesso risultano mancanti dell’unico faro necessario: il dovere del soccorso in mare, senza condizioni né ritardi.

Quando l’allarme per una imbarcazione in distress viene dato a centri di coordinamento di vari paesi, com’è prassi, anche se la nave si trova in area Sar di un certo paese, tutti gli altri sono allertati, proprio perché ciascuno di essi deve colmare eventuali lacune nei soccorsi da parte di quello cui spetterebbe il coordinamento. Per cui, se il paese che avrebbe competenza a intervenire resta inerte, non possono restare inerti anche tutti gli altri avvisati dell’emergenza: le persone in mare vanno salvate, e tempestivamente, come prescrivono le convenzioni. In altre parole, se lo Stato competente in una zona Sar non provvede a fornire soccorsi, la responsabilità dei soccorsi stessi si appunta sugli stati avvertiti del distress. Ed è una responsabilità che diviene una “colpa” se nessuno di questi ultimi vi provvede, in forza di quel dovere di salvataggio che è il fondamento del diritto del mare.

L’ultimo naufragio

Nel comunicato della Guardia costiera si legge che «le autorità libiche, competenti per le attività di ricerca e soccorso in quell'area, a causa della mancanza di disponibilità di assetti navali, chiedevano il supporto (…) del Centro Nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma che, su richiesta delle autorità libiche, inviava nell'immediatezza, un messaggio satellitare di emergenza a tutte le navi in transito». Questo è il primo punto da rilevare: nel momento in cui il Centro italiano subentra a quello libico, diviene formalmente responsabile del coordinamento dei soccorsi, secondo le convenzioni internazionali, a prescindere dalla zona Sar in cui si trovava il natante in distress.

Un primo mercantile vicino al barchino aveva già dichiarato di «avere difficoltà a soccorrerli a causa delle avverse condizioni meteo in zona». La Centrale Operativa della Guardia costiera di Roma invia altri 3 mercantili presenti in zona verso il natante in difficoltà. Bisogna chiedersi perché, anziché mandare una nave della Guardia costiera, sia stato deciso di ricorrere al supporto di altre navi mercantili in loco, se già la prima aveva dichiarato che una nave mercantile non avrebbe potuto procedere ai salvataggi. Tant’è che «le operazioni di trasbordo dei migranti», avviate da «uno dei 4 mercantili che avevano raggiunto il barchino in difficoltà», si sono poi concluse tragicamente.

Lascia perplessi, inoltre, la frase conclusiva del comunicato: «l'intervento di soccorso è avvenuto al di fuori dell'area di responsabilità Sar italiana registrando l'inattività degli altri Centri Nazionali di coordinamento e soccorso marittimo interessati per area». Come spiegato, il fatto che un evento si verifichi nell’area Sar di un certo paese non esime da responsabilità gli altri paesi avvisati dell’emergenza. Nel rimpallo tra stati, non esistono ragioni che giustifichino l’inerzia di chicchessia a fronte di persone che rischiano di perdere la vita in mare.

Il ministro Matteo Salvini, che coordina la Guardia costiera e che finora si è tenuto in disparte circa i fatti di Cutro, può fornire chiare risposte ai quesiti che poniamo sull’ennesima tragedia del mare che l’Italia avrebbe forse potuto concorrere a evitare, ma che ancora una volta non è stata evitata?

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