Un rispettoso silenzio interrotto solo da un potente e roboante rumore di chiavi. Centinaia di chiavi agitate all’unisono, per esprimere riconoscenza verso le parole pronunciate dal padre di Giulia Cecchettin durante il funerale pubblico della ragazza vittima di femminicidio. Ma non solo, quel gesto, spontaneo e collettivo porta con sé un messaggio che è intrinsecamente politico: il femminicida non é un passante, uno sconosciuto, ma ha le chiavi di casa.
La grande partecipazione cittadina ai funerali pubblici di Giulia, le mobilitazioni fiorite ovunque nelle ultime settimane: dai presidi nelle province alla manifestazione oceanica di Non Una di Meno del 25 novembre, ci restituiscono con chiarezza come stia avvenendo una presa di consapevolezza collettiva rispetto alla violenza di genere.

Il femminicidio di Giulia ha infatti reso evidente una verità che ormai nessuno può più negare: i femminicidi, gli stupri, le molestie, le discriminazioni non sono un ammasso di casi isolati, ma esiste un sistema di potere ben preciso: il patriarcato, che produce violenza e che ci riguarda tutti e tutte.

Dire che i 110 femminicidi del 2023 sono un fatto politico significa riconoscere che la violenza di genere non è un problema solamente individuale da risolvere inasprendo le pene, buttando via la chiave, militarizzando le strade oppure con i piccoli gesti quotidiani di buonsenso e gentilezza.
Il problema è il patriarcato, cioè un sistema culturale, economico e sociale fondato sulla violenza, sull’oppressione e sullo sfruttamento della vita e dei corpi di noi donne e libere soggettività non binarie.
Violenza patriarcale sono le botte in casa, sono la vittimizzazione secondaria delle polizie e dei tribunali quando denunciamo, sono le narrazioni tossiche dei giornali che minimizzano i femminicidi come ‘raptus di gelosia’, sono i tagli alla spesa pubblica che rendono le nostre esistenze sempre più precarie, ricattabili e violentabili.

Quando una donna, una persona trans o non binaria vuole svincolarsi dalla dipendenza da un partner violento, spesso non riesce a farlo per via di uno stipendio troppo basso che nega la possibilità concreta a questi soggetti di andare via di casa e autodeterminarsi. Per questo nominiamo anche la violenza economica come parte di questo sistema di oppressione.

Questo è tutto quello che diciamo come movimento femminista e transfemminista Non Una di Meno da otto anni, al di là dell’eccezionalismo mediatico, perché il patriarcato non è lo scandalo del mese. Perché dietro all’ipervisibile femminicidio di Giulia Cecchettin, ci sono gli invisibili femminicidi di donne anziane, trans, lesbiche, migranti, sex workers, povere.

Da otto anni pretendiamo un’assunzione di responsabilità politica da quelle istituzioni che oggi siedono con il tricolore in prima fila nei banchi di Santa Giustina, piangendo il femminicidio n. 105: educazione all’affettività e alla sessualità consapevole in tutte le scuole per prevenire la violenza ed educare a relazioni basate sul rispetto e sul consenso; maggiori finanziamenti ai centri antiviolenza per sostenere i percorsi di fuoriuscita dalla violenza; un reddito di autodeterminazione per uscire da relazioni, dinamiche ed esistenze violente, perché non c’è libertà senza autonomia economica.

Vedremo che ne sarà del decantato impegno nel contrasto alla violenza di genere una volta che i riflettori si saranno spenti. Noi di sicuro continueremo a sognare, rivendicare e mettere in pratica una società basata sul consenso, sul rispetto delle diversità e sulla cura. Per Giulia, per le 110 vittime di femminicidio, per tutte perché non ne vogliamo una di meno!

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