«C’è stata un’interlocuzione con gli uffici del presidente della Repubblica, come avviene per tutti i provvedimenti e particolarmente su questa materia». Nella conferenza stampa di presentazione della «madre di tutte le riforme», Giorgia Meloni lascia scivolare una risposta irrituale a una domanda rituale, se il Colle conosce il testo. Certo che qualcuno al Colle ha letto il testo: le interlocuzioni sul piano tecnico-giuridico ci sono state, va da sé, come per ogni altro provvedimento.

Ma la frase che Meloni lascia scivolare ha un altro obiettivo: far passare l’idea che il Quirinale in qualche modo, certo informale, ha già bollinato la riforma. Eppure le «interlocuzioni» di rito non significano affatto questo, anche se il via libera del presidente Mattarella è scontato, visto che la materia è opinabile ma non si chiede il ripristino della monarchia: siamo nell’ambito di un assetto costituzionale accettabile al primo vaglio di costituzionalità. Ma la responsabilità del testo resta del governo, ed eventualmente del parlamento che lo voterà.

L’allusione della premier quindi è un errore di galateo, ma non innocente. Le interlocuzioni informali ci sono sempre, sono riservate e fanno parte di quell’attività quirinalizia che, se ce ne fosse bisogno, è stata descritta bene dalla sentenza 1/2013: «Non occorrono molte parole per dimostrare che un’attività informale di stimolo, moderazione e persuasione – che costituisce il cuore del ruolo presidenziale nella forma di governo italiana – sarebbe destinata a sicuro fallimento, se si dovesse esercitare mediante dichiarazioni pubbliche». Insomma, un’attività informale e al riparo dalla pubblicità che tale deve restare. Invece la premier la racconta per far passare l’idea di un Colle quantomeno non scontento. Che è poi la preoccupazione più forte. Nella sala di palazzo Chigi ieri premier e ministri ripetono un refrain concordato. La presidente: «Il ruolo del presidente della Repubblica è di assoluta garanzia e noi abbiamo deciso di non toccarne le competenze, salvo l’incarico al presidente del Consiglio». La ministra Elisabetta Casellati, titolare del dossier: «La riforma sul premierato preserva i poteri del presidente della Repubblica che resta e deve restare figura chiave dell’unità nazionale». Il vicepremier Antonio Tajani: «Sono contento che non siano stati toccati i poteri del capo dello Stato che è sempre una garanzia».

Il governo già risponde al «giù le mani dal Colle» che l’opposizione già scandisce. E già pensa al quesito con cui affronterà, a suo tempo – ci vorranno almeno due anni per l’iter della legge la prova del nove del referendum popolare – quello che fin qui ha abbattuto quasi tutti i governi che hanno tentato questa strada, e i loro leader (Meloni, in un passaggio contradditorio, dice che in caso di bocciatura popolare non si dimetterà). La premier lo tratteggia già: se il voto parlamentare non sarà «sufficiente» – cioè se non arriverà la maggioranza dei due terzi del parlamento in entrambe le camere – chiederà ai cittadini se vogliono «decidere da chi farsi governare, mettendo fine alla stagione dei ribaltoni, dei giochi di palazzo, del trasformismo, delle maggioranze arcobaleno e dei governi tecnici, di tutti quei governi che nel corso degli anni sono passati sulla testa dei cittadini per realizzare cose che i cittadini non avevano deciso». E se vogliono «che chi viene scelto dal popolo possa governare con un orizzonte di legislatura, garantendo una stabilità che è una condizione sostanziale per costruire una strategia e avere una credibilità a livello nazionale e internazionale».

Pasticcio Quirinale

Per l’opposizione il Colle è già la linea del Piave: per Elly Schlein la riforma «è pasticciata e pericolosa perché indebolisce il parlamento» e «limita le prerogative del presidente della Repubblica». Si tratta, secondo Riccardo Magi, di +Europa, della «fine del ruolo del presidente della Repubblica come garante della Costituzione». Anche Azione è sul piede di guerra. «Con questo testo non sarebbe mai stato possibile il governo Draghi, tutt’ora uno dei leader più stimati nel mondo, e si mette nell’angolo una figura come quella del presidente Mattarella», avverte l’ex ministra Mariastella Gelmini.

Il tasto Quirinale è il più sensibile per il governo. Ai cronisti che si occupano del Colle è ormai stato chiarito che il presidente non entrerà nell’iter della riforma. Non ha titolo, peraltro sarebbe in palese conflitto di interessi, visto che si parla anche dei suoi poteri. E non si tratta solo della cancellazione dei senatori a vita, fatti salvi gli ex presidenti della Repubblica. Lo spiega il costituzionalista Stefano Ceccanti, ex deputato Pd: «A oggi la base elettiva del capo dello stato, costituita dal parlamento e dai delegati regionali, è più ampia dei 600 che danno la fiducia al governo. Si può anche indicare il premier prima del voto, ma, se lo si elegge direttamente con milioni di persone, è evidente che si creano premesse di conflitti. Ad esempio: come rifiutare la nomina di un ministro a un eletto da milioni di persone?» E non c’è solo questo: «Si riducono i margini del presidente della Repubblica nel dare il secondo incarico a uno della maggioranza e basta. E se poi dopo il secondo premier c’è solo il voto, il potere di scioglimento si sposta per intero sul secondo premier».

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