«Per Giulia/ per tutte/ niente silenzio/ niente lutto/ grideremo forte/ bruceremo tutto». Alle tre del pomeriggio il Circo Massimo esonda. È il luogo dell’appuntamento per la partenza del corteo delle giovani “transfemministe” di Non una di meno, la rete che da anni si prende la scena nella Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza sulle donne. Ma una marea è una marea, neanche il catino dei megaconcerti riesce a contenerla, l’enorme tir che deve mettersi alla testa di tutte («tutte, tutti, tutt*», dai megafoni escono acrobazie linguistiche non trascrivibili, impareremo), guidato da Ale e Monica, fatica a non acciaccarne cento mentre si muove per partire, le ragazze si tengono per mano il lunghissimi cordoni per dargli spazio. È una marea che sfida la prima tramontana gelida dell’autunno – 50mila è la media di fonti diverse, dal tir a un certo punto si strilla «500mila», è troppo ma comunque la marea è altissima – soprattutto di ragazze.

Le voci della manifestazione di "Non una di meno" al Circo Massimo a Roma

Quest’anno come sempre più di sempre ci sono tantissimi ragazzi, si sono disegnati in faccia strisce rosse con il rossetto delle loro compagne, portano cartelli che dicono «Se stupri non sei un uomo». Dai licei e dagli istituti sono arrivati tutti insieme, a grupponi, femmine maschi e tutto l’arcobaleno dei generi autoattribuiti, con le felpe “griffate” della scuola – quelle che si fanno nelle occupazioni per autofinanziarsi, il Virgilio, l’Augusto, il Cannizzaro, quelli del Socrate hanno una bandiera con il filosofo con megafono e stella rossa –, dal tir voci femminili debbono faticare tanto a impartire ordini: «I centri antiviolenza debbono stare in cima al corteo, non è una richiesta, è una pretesa». Ci sono i cartelli che spiegano ai ragazzi: «Non volerti in questo spezzone non vuol dire che ti reputiamo un uomo violento, però forzare la nostra volontà ti rende tale». I compagni più anziani lo capiscono e si tengono sui marciapiedi, i più giovani sono incontenibili.

Le chiavi in mano

Ma è quasi un Pride, a tratti la musica è a palla. E fanno tutte e tutti in chiasso del diavolo: con fischietti, tamburi, tamburelli come in un cacerolazo. Nei momenti stabiliti parte il frastuono delle chiavi, un suono che è diventato il simbolo delle lotta. Da un altro camion, quello di Nudm di Firenze, spiegano perché: «La sera torniamo a casa, le chiavi in una mano, il cellulare nell’altra. Non ce lo diciamo, ma abbiamo scoperto di farlo tutte. In stato di allerta costante. Senza poter mai abbassare la guardia. Sempre pronte a difenderci».

Sono migliaia i cartelli, di ragazze ragazzine e donne, intorno agli striscioni dei centri antiviolenza, Differenza Donna, «Libere di scegliere», alla rete Dire, al romano Lucha Y Siesta, che ha appena ricevuto l’avviso di sgombero. Dal lato del corteo il sindaco Roberto Gualtieri promette sostegno.

Ovunque  parole ispirate al grido Elena Checchettin, sorella di Giulia, la ventiduenne uccisa e ritrovata a Fossò, Venezia, a sua volta ispirato al grido dell’architetta peruviana Cristina Torres-Cáceres, dopo l’ennesimo femminicidio: «Se tocca a me, voglio essere l’ultima» (Giulia non è stata l’ultima, dopo di lei c’è stata Rita, a Fano, strangolata dal marito), ce n’è altri mille ispirati agli stereotipi dei media, «I lupi vivono nel bosco, gli uomini violenti sono figli del patriarcato», «Quando esco voglio essere libera, non coraggiosa», anche con amara ironia, «Non mi sono ubriacata quindi non mi hai stuprato». 

Ci sono anche le madri del femminismo, signore che tengono il loro cartello da veterane, come le donne dell’Udi (Unione donne italiane, associazione nata in piena lotta di Resistenza), Maria, Marina, Alma e Carla. Spiegano: «Hanno iniziato questa lotta le nostre madri, in qualche caso le nostre nonne, siamo ancora qua».

Presenze e assenze

E qui va detto che una parte del femminismo storico quest’anno non c’è. E non solo per i dissensi con il «transfemminismo» e la perplessità per la cultura Lgbtq+. Ma perché, lo ha spiegato sui social la giurista ebrea laica Tamar Pich, la sottolineatura filopalestinese della piattaforma della manifestazione, «non dice una parola che sia una sul massacro commesso da Hamas su israeliane e israeliane». Sul sito le ragazze hanno scritto che la piazza «è aperta alle israeliane», ci mancherebbe. Ma alla partenza c’è una decina di bandiere palestinesi, rette da ragazzi («Ringraziamo le compagne che ci hanno permesso di venire qui», dicono) e ragazze con la kefia, di un comitato «antisionista antifascista in solidarietà con il popolo palestinese», cavarne una frase dritta contro i terroristi di Hamas non è facile. Hanno addosso le telecamere di tutti, anche quelle di agenti in borghese e casco nero: che ci sono sempre, ma stavolta in mezzo alle ragazze in fucsia non riescono a mimetizzarsi. 
Ma la verità è che la ragione per cui questa marea si è addensata a Roma, come a Messina, a Torino, a Perugia e in tante altre città, è Giulia e le altre, è la violenza maschile contro le donne, e se si sentono slogan “politici”, sono contro «il patriarcato» e contro la premier Giorgia Meloni che taglia i soldi ai centri antiviolenza (Meloni sostiene il contrario).

Così per tante annunciate roboanti assenze causa questione mediorientale, ci sono altrettante presenze di volti noti tra la folla, senza circo mediatico intorno, come hanno chiesto le organizzatrici. Oltre al sindaco c’è Elly Schlein, accompagnata da Marta Bonafoni in abbagliante cappotto fuxia, entrambe habituée di questa piazza. «Per sradicare la cultura patriarcale di cui è imbevuta la nostra società e che genera la violenza e le discriminazioni», dice la segretaria Pd, «serve l’educazione all’affettività obbligatoria nelle scuole e risorse sulla formazione di operatrici e operatori delle forze dell’ordine e della giustizia, e sostegno ai centri antiviolenza». C’è il segretario Cgil Maurizio Landini: «Qui ci sono tanti giovani e anche bambini, famiglie, dobbiamo porre le questioni con molta più radicalità. Una riguarda gli uomini: la violenza e i femminicidi li fanno gli uomini. Il cambiamento deve partire dagli uomini». C’è l’attrice Paola Cortellesi, protagonista e regista del film femminista cult del momento, «C’è ancora domani», ci sono Ferzan Ozpetek, Fiorella Mannoia, Noemi. C’è Flavio Insinna in felpa rossa che spiega che «da piccolo mi hanno addestrato ad andare a prendere mia sorella alla fine delle feste, ma non dovrebbe succedere: siamo cavernicoli, dobbiamo diventare civili», cita Mattarella, «lui è un faro»:  perché il presidente della Repubblica la mattina ha detto che dietro le aggressioni alle donne «c’è il fallimento della società».

In viale Manzoni qualche momento di tensione davanti alla sede dell’associazione “Pro vita e famiglia”. Le ragazze aprono uno striscione ironico: «Voi pro vita, noi pro vibra». La rabbia va avanti fino a sera: «Un grido di battaglia/ per Giulia/ per tutte/non una di meno», il corteo della Capitale finisce che è quasi notte. Ora però che finisca la mattanza, quest’anno siamo già a 107 di meno.

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