Il tempo delle riflessioni è scaduto, Giorgia Meloni lo sa e ha smesso di dare retta agli alleati. I ministeri sono stati spartiti e non c’è più tempo per ripensamenti: se a Matteo Salvini e Silvio Berlusconi la sua lista non andrà bene, si assumeranno la responsabilità di non far nascere il governo. La scommessa, naturalmente, è che nessuno avrà il coraggio e nemmeno la forza di far saltare una maggioranza così larga, anche se dovrà ingoiare il no ai dicasteri che aveva chiesto. Niente Agricoltura per Salvini, con Gian Marco Centinaio dirottato alla vicepresidenza del Senato, e il ministero al presidente di Coldiretti, Ettore Prandini. Niente Giustizia a Forza Italia, ma ormai saldamente nelle mani dell’ex magistrato Carlo Nordio.

La premier in pectore ha imposto il silenzio a tutto lo stato maggiore del suo partito, con cui si è parlata per i ritocchi delle ultime ore prima di salire al Colle per le consultazioni. E domenica già si programma il giuramento.

Salvate il soldato Tajani

Il nome, però, che rimane in bilico fino all’ultimo è quello del vicepresidente di Forza Italia, Antonio Tajani, colpito e quasi affondato dalle dichiarazioni filo-putiniane del suo leader Silvio Berlusconi. Ieri è corso al summit del Partito popolare europeo di Bruxelles e si è profuso in dichiarazioni in «totale favore della Nato» e «contro l’inaccettabile invasione russa» dell’Ucraina. Tutto, pur di riallinearsi alla nota tranciante di Meloni su atlantismo ed europeismo come «caposaldo del governo» e sperare che tanto basti a salvare l’incarico che gli sembrava a portata di mano e ora è in bilico.

La sponda dei popolari europei è arrivata e anche la presidente del Consiglio europeo, Roberta Metsola, ha detto di essere stata «rassicurata» da Tajani. Anche tra gli azzurri è scattata l’operazione “salvate il soldato Tajani”: i big del partito, Licia Ronzulli compresa, hanno attaccato la manina irresponsabile che ha divulgato gli audio del Cavaliere e sciorinato il repertorio europeista e atlantista a rispolverando la retorica degli accordi di Pratica di Mare. Lo stesso Berlusconi ha twittato, con istituzionale sobrietà, la sua «totale adesione ai valori europeisti e atlantisti». Tutto, pur di mantenere un tassello determinante nel nuovo esecutivo e non perdere ulteriore terreno rispetto alla Lega.

Smaltita la rabbia per il protagonismo sguaiato di Berlusconi e per le dichiarazioni incendiarie pro-Putin, Meloni sarebbe orientata a non far ricadere su Tajani le colpe del suo leader. Lei ha le spalle abbastanza larghe per assorbire gli attacchi delle opposizioni e la spaccatura interna a Forza Italia, tra falchi “ronzulliani” e governisti vicino a Tajani, le suggerisce la via del dividi et impera. Presto o tardi, il partito di Berlusconi esploderà, è il ragionamento dentro Fratelli d’Italia, e allora i governisti dovranno rimanere ancorati all’esecutivo, con la tranquillità di un facile passaggio al neo-costituito gruppo dei Moderati di Maurizio Lupi.

L’ultimo passo che deve avvenire senza sbavature è quello delle consultazioni. La delegazione del centrodestra si presenta unita e variegata: contiene tutte le contraddizioni emerse negli ultimi giorni. Meloni sarà coi suoi capigruppo di Camera e Senato, e accompagnato dai suoi sarà anche Salvini, più silenzioso del solito in questa fase. Il sospetto della leader è che ci sia lui dietro le manovre di Ronzulli, che a sua volta sarà presente in veste di capogruppo a palazzo Madama di FI, insieme al suo omologo Alessandro Cattaneo. Ci sarà ovviamente Silvio Berlusconi e a suo fianco, in veste di vicepresidente del partito, anche il povero Tajani ancora incerto sul suo futuro. A chiudere il gruppo, l’ecumenico Lupi e i capigruppo dei Moderati: «Il leader della coalizione fa la dichiarazione a nome di tutta la coalizione», ha tagliato corto a Rai News, nella sua ormai consueta veste di voce del buon senso della scomposta coalizione. La paura di Meloni è quella di un bis del 2018, quando il leader era Salvini e Berlusconi si lanciò in uno show alle sue spalle mentre parlava. La premier in pectore confida che Gianni Letta, rimesso al suo posto di consigliere, gli abbia detto le parole giuste. In ogni caso, il governo è a un passo e l’imperativo ora è correre.

Nelle dichiarazioni istituzionali l’orizzonte è la fine della legislatura, nelle valutazioni più realistiche si guarda al 2023 e alla tornata di nomine chiave, visto che sono in scadenza i vertici di Eni, Enel, Poste e Leonardo. Poi si vedrà. Vista la partenza sul filo dell’incidente diplomatico e la crisi economica arrembante, non è realistico al momento fare piani più a lungo termine.

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