I due chilometri e poco più che separano l’ambasciata degli Stati Uniti da quella della Repubblica popolare cinese, nel centro di Kabul, sono puntellati da una serie di palazzi abbandonati: le ville-compound riconoscibili dalle bandiere della Spagna o le sedi praticamente affiancate di Germania, Gran Bretagna e Canada, sono tutte serrate. Un’ala di quella francese è occupata da centinaia di persone che sperano di rifugiarsi in Europa per scappare dai nuovi padroni del paese. Prima accampati sui giardini esterni, ora dormono direttamente nell’edificio. La sede della diplomazia di Pechino è l’eccezione, una delle tre sole ambasciate, assieme a quella di Russia e Pakistan, che rimangono ufficialmente aperte nella capitale afghana nuovamente in mano ai Talebani.

Gli Stati Uniti che hanno nel paese un incaricato d’affari hanno portato a termine una evacuazione disperata e scomposta durante il weekend, salvo poi inviare tremila soldati per garantire il rientro in sicurezza del personale Nato e dei civili con visto per gli States. Ora dovrebbero seguire gli altri, ma nel caos di questi giorni i leader Ue hanno ritardato le operazioni per salvare i diritti – e la faccia – almeno di chi ha lavorato con loro.

Prima e ultima

L’Italia, l’ultima delle grandi nazioni europee a pronunciarsi ufficialmente sulla crisi afghana, ha anticipato nell’evacuazione tutti gli altri – Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna – rimpatriando l’ambasciatore, Vittorio Sandalli, arrivato in Afghanistan solo nel 2020. Tornato a Roma prima dei suoi colleghi, non ha rilasciato dichiarazioni. In loco è rimasto il referenze dell’ufficio consolare, Tommaso Claudi, a gestire una situazione che chiamare emergenza è riduttivo.

Il premier Mario Draghi ha dato conto della rapidità con cui l’Italia aveva già messo al sicuro la maggioranza del personale diplomatico, ma la scelta di far rientrare prima il capo missione, il solo che può incarnare con pienezza la rappresentanza del paese, ha causato qualche malcontento tra le feluche, e non solo tra quelle. Due giorni fa Stefano Manservisi, alto funzionario europeo da 35 anni, collaboratore di Romano Prodi, Mario Monti, Federica Mogherini e oggi consigliere del commissario Paolo Gentiloni, ha commentato la scelta dell’ambasciatore britannico sir Laurie Bristow di rinviare la partenza e rimanere in aeroporto a bollinare i visti per il rientro in Gran Bretagna, dicendo che nessun diplomatico avrebbe dovuto partire. Una dichiarazione molto netta per la sua posizione.

Improvvida, secondo l’ex ambasciatore Armando Sanguini, che pure è critico sulla scelta italiana di far rientrare l’ambasciatore prima degli altri: «L’impressione è che ci sia stata una lacuna nel coordinamento tra i paesi», dice, «ma gli stati si difendono anche coi ranghi». «In questi casi si cerca di fare operazioni all in o all out, tutti dentro o tutti fuori per evitare fughe in avanti o indietro», dice l’ex capo di stato maggiore Leonardo Tricarico, «probabilmente in questa fase concitata non è stato possibile».

Paura della legittimazione

Le notizie che arrivavano il 18 agosto dall’aeroporto di Kabul dove si sono trasferite la maggioranza delle delegazioni diplomatiche confermavano la prossima partenza del rappresentante spagnolo, francese, del norvegese e anche del capo delegazione Ue. La Germania dopo aver chiuso l’ambasciata il 15 agosto, era in attesa di un voto del parlamento sulla procedura di evacuazione, ma ieri la diplomazia tedesca con un annuncio ufficiale sul suo sito ha fatto capire di non poter più aspettare. Ci sono questioni di sicurezza, tutela dei civili con i visti europei - solo il ministero della Difesa britannico punta a rimpatriare mille persone al giorno - ma anche motivazioni politiche. «All’ultima riunione convocata tra gli ambasciatori dei paesi “alleati”», spiega l’ex numero uno del Dis Giampiero Massolo, «non si è presentato nessuno dei capi missione per paura di dare una legittimazione al nuovo governo». Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha chiesto ufficialmente un esecutivo inclusivo delle varie etnie del paese, composto anche da donne. Il timore esplicito è che si possa aprire una nuova dilaniante guerra civile in un paese in cui già oggi ci sono 18 milioni di persone che necessitano assistenza.

Per le diplomazie gli eventi di questi giorni sono anche difficili da leggere. Si tratta dell’esito di una pace dichiarata, come dovrebbero testimoniare le quattro paginette vuote dell’accordo di Doha, firmate dagli Stati Uniti con una controparte che ufficialmente hanno sempre negato di riconoscere o della fine di una guerra mai dichiarata ma vinta dai Talebani come ha detto l’alto rappresentante degli affari esteri Ue, Josep Borrell? E perché quelli che hanno negoziato la pace non hanno più nemmeno un ambasciatore e quelli che invece ammettono la sconfitta di fronte ai talebani vogliono dialogare?

Con loro, ha detto Borrell, «dobbiamo parlare». L’Ue però, spiega palazzo Chigi, ha intenzione di subordinare ogni forma di cooperazione con la nuova leadership «al rispetto dei diritti umani». Ieri un portavoce degli affari esteri della Commissione europea spiegava che l’Unione sta cercando di mantenere le operazioni della delegazione a Kabul «nel miglior modo possibile, il più a lungo possibile, date le circostanze». «Quando ero ambasciatore in Cile», dice l’ex diplomatico Sanguini, «sono riuscito a non stringere mai la mano a Pinochet, ma stavo lì per negoziare».

.

© Riproduzione riservata