Carlo Fuortes lascia il suo incarico di amministratore delegato Rai con un anno e tre mesi di anticipo. Non andrà a fare il sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli, il posto che Giorgia Meloni stava provando a liberare via decreto d’urgenza, per offrirglielo, pur di dare inizio all’occupazione dei vertici della RadioTv italiana. La decisione, comunicata ieri mattina al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ha sorpreso solo quelli che erano convinti che il manager si sarebbe fatto imprigionare dal pasticciaccio in cui si è infilata la premier: con i suoi uomini Rai che la pressano per i posti, l’azienda paralizzata dalle lotte intestine alla maggioranza; e per di più il sovrintendente del San Carlo Stéphane Lissner che minaccia ricorsi; e infine il decreto ad hoc zeppo di svarioni – e infatti non ancora pubblicato in Gazzetta ufficiale – che al momento rischia di decapitare i vertici di altri teatri (si sono dimenticati di specificare che la soglia dei settant’anni, estesa anche ai direttori stranieri, vale solo per gli incarichi operativi).

Meloni ora ha mano libera. Ma non sarà facile comporre gli appetiti dei suoi e della Lega su Viale Mazzini. Fuortes se ne va prima del prossimo cda, in agenda il 18 maggio (all’ordine del giorno la discussione sui palinsesti, il piano industriale è pronto in attesa delle cifre delle risorse che saranno stanziate dal Mef). Se ne va senza trattare nulla. E senza aggiungere commenti alla sua lettera di dimissioni. «Sono arrivato da uomo libero, me ne vado da uomo libero», sono le poche parole che si sono sentiti dire quelli a cui ieri ha risposto al telefono.

La lettera di dimissioni

La lettera di dimissioni è misurata ma esplicita. «Nell’interesse dell’Azienda rimetto il mandato. Mancano le condizioni per continuare nell’incarico», scrive al ministro. Il manager elenca i risultati del suo lavoro, «con il governo Draghi il Cda ha raggiunto grandi risultati per l’azienda» (cita il rilancio di Rai2, il piano immobiliare, il potenziamento di RaiPlay e dell’offerta digitale). Ma dall’inizio del 2023, scrive, «sulla mia persona si è aperto uno scontro politico che contribuisce a indebolire la Rai», e nel cda ha registrato «il venir meno» dell’indispensabile «atteggiamento costruttivo». Un atteggiamento che rischia di «paralizzare» l’azienda. «Non ci sono più le condizioni per proseguire nel progetto editoriale di rinnovamento che avevamo intrapreso nel 2021», conclude, «Non posso, pur di arrivare all’approvazione in Cda dei nuovi piani di produzione, accettare il compromesso di condividere cambiamenti - sebbene ovviamente legittimi - di linea editoriale e una programmazione che non considero nell’interesse della Rai. Ho sempre ritenuto la libertà delle scelte e dell’operato di un amministratore un elemento imprescindibile dell’etica di un’azienda pubblica. Il mio futuro professionale - di cui si è molto discusso sui giornali in questi giorni, non sempre a proposito - è di nessuna importanza di fronte a queste ragioni e non può costituire oggetto di trattativa».

Le dimissioni, quasi un unicum nella storia dei vertici Rai, hanno sorpreso quelli che speravano che il manager, restando al suo posto come la legge impone, distraesse i media dal vero punto di tutta questa storia: la pretesa di occupare la Rai da parte del governo, al di fuori della norma legale. Fuortes ha scelto dall’inizio di non replicare alle accuse che gli venivano rivolte. Ma le ultime ore gliene hanno riservate di particolarmente sgradevoli. E non tanto quella di «gestione disastrosa» da parte di Giuseppe Conte, che con Fuortes ha un conto aperto dai tempi di Draghi per una presunta sottorappresentanza grillina nelle direzioni (sempre condita da roboanti affermazioni contro la lottizzazione). Quanto le ipocrisie degli uomini più vicini a Meloni, impegnati nel frattempo a giurare ai loro referenti in azienda l’imminente cambio di vertice. Sabato il ministro Francesco Lollobrigida al Corriere aveva detto che «nessuno» costringeva Fuortes ad andarsene, e che mettere in relazione la Rai con la norma sul San Carlo era «una malignità». Ieri il capolavoro finale: «Non mi risulta che ci sia nessun tipo di pressione particolare nei suoi confronti». In Fratelli l’Italia ci sono scivoloni anche peggiori: Maurizio Gasparri scrive sui social una poesiola di dileggio all’indirizzo del manager.

Rai di Putin di più

Ora si attende la nomina di Roberto Sergio come ad, e di Giampiero Rossi direttore generale ma con sostanziose deleghe operative. Quel Rossi, intellettuale organico a Fdi, che però non riesce a fare dimenticare il suo passato da fan di Putin. Diventa incerta la sorte del decreto “ad hoc”, destinato a scatenare un putiferio contro il governo.

La Rai, poco difesa dalle opposizioni, ora rischia di arrendersi a uno spoil system contrario alle indicazioni europee, come ricorda la consigliera in quota dem Francesca Bria. Il Pd, che pure con la segreteria di Enrico Letta non aveva mai difeso il manager, ora ha cambiato impostazione e ha capito la posta della partita: «Meloni ha raggiunto il suo obiettivo: fare il pieno di poltrone in Rai. Lo ha fatto approvando un decreto “contra personam” per accelerare le nomine» il cui unico scopo «era epurare una buona gestione per far spazio ai loro uomini», dicono in una nota congiunta Sandro Ruotolo, responsabile informazione e Stefano Graziano, capogruppo in Vigilanza, «un’epurazione a scopi politici».

L’Usigrai, il sindacato dei giornalisti del servizio pubblico, e i Cinque stelle chiedono che l’ad vada comunque in commissione Vigilanza a spiegare «a cosa fa riferimento quando parla di cambiamenti di linea editoriale che non considera nell’interesse dell’azienda». Ma Fuortes era stato convocato come ad, ora non lo è più. Mercoledì sarà ascoltato il presidente dell’Agcom Giacomo Lasorella. Toccherà alla presidente Barbara Floridia sconvocare l’invito all’ex ad. O confermarlo, come chiede il suo partito.

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