Lo scorso 11 aprile il Consiglio dei ministri ha deliberato lo stato di emergenza, della durata di sei mesi, «in relazione al forte incremento dei flussi migratori verso l’Italia», al «sovraffollamento nei centri di prima accoglienza e, in particolare, presso l’hotspot di Lampedusa, e alle previsioni di un ulteriore incremento delle partenze nei prossimi mesi».

Lo stato di emergenza più noto agli italiani è quello deliberato all’inizio del 2020, con l’insorgere della pandemia da Covid-19. Ma sul sito della protezione civile c’è l’elenco di tutti i casi in cui vi si è fatto ricorso. Tale stato, disciplinato dal Codice della protezione civile (d. lgs. n. 1/2018), dovrebbe consentire l’«insieme, integrato e coordinato, delle misure e degli interventi» necessari a un’efficace gestione delle criticità, con procedure in deroga alle norme ordinarie, attraverso l’esercizio di poteri di ordinanza.

Considerata la strumentalizzazione dello stato di emergenza avvenuta in epoca Covid, è necessario esaminare i risvolti della recente deliberazione.

Una scelta politica

Innanzitutto: è “vera” emergenza? Come abbiamo scritto su queste pagine, a marzo sono sbarcate circa 13mila persone, che è lo stesso numero di luglio 2022 (13.802), inferiore a quello di agosto (16.822), analogo a quello di settembre (13.533) e di ottobre (13.493).

Inoltre, come spiegato da Amnesty International, «dal 2014 al 2017 sono sbarcate 623mila persone, sono state presentate 400mila domande d'asilo e sono state registrate nel sistema d'accoglienza 528mila presenze», ospitando «più di 190mila persone senza che sia stata dichiarata alcuna emergenza».

Va pure considerato che i molti sbarchi non si sono tradotti finora in più stranieri sul territorio nazionale. Il numero di questi ultimi in Italia – cinque milioni e mezzo di persone – negli ultimi dieci anni è restato pressoché costante. A ciò si aggiunga che l’Italia è il quarto paese dell’Unione europea per richieste d’asilo, nonostante sia il primo per numero di sbarchi.

Nel 2022 sono state 77.195, a fronte delle 116.140 presentate in Spagna, 137.505 in Francia e 217.735 in Germania. La dichiarazione dello stato di emergenza richiede la sussistenza di presupposti giuridici, ma i numeri rendono palese che la valutazione è una scelta politica.

Lo stato di emergenza

L’attuale maggioranza ha preparato la strada a questo stato di emergenza già prima di arrivare al governo, alimentando una narrazione basata su elementi propagandistici, tra promesse di blocco navale e di ripristino dei decreti sicurezza con la chiusura dei porti.

La narrazione emergenziale è proseguita dopo l’insediamento a Palazzo Chigi. Il decreto legge sulle navi delle organizzazioni non governative (Ong) – uno dei primi atti del nuovo esecutivo, che ostacola le attività di salvataggio, tra divieto di soccorsi multipli e fermi amministrativi – è stato fondato sulla “emergenza” di fermare le Ong al fine di arrestare l’arrivo di migranti.

Allo stesso scopo, e contestualmente, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha cominciato ad assegnare alle navi delle Ong porti sempre più lontani, riducendo così la loro presenza nelle zone critiche. Questi interventi sono stati fondati sul presupposto fallace che le Ong rappresentino un “pull factor”, cioè un fattore di attrazione per i migranti: ciò è stato smentito più volte in base a dati concreti. Lo stesso Viminale attesta che i salvataggi delle Ong rappresentano mediamente solo il 12 per cento degli sbarchi.

La realtà ha reso palese che quella spacciata come un’urgenza – fermare le Ong – era solo un pretesto: nonostante il depotenziamento delle navi di soccorso, gli arrivi sono aumentati. E così, a fronte di una gestione normativa e amministrativa di tipo emergenziale rivelatasi un fallimento, al governo non è restato che puntare più in alto, e sbandierare la vera e propria dichiarazione dello stato di emergenza.

I rischi

L’affermazione secondo cui lo stato di emergenza serve a «realizzare nuove strutture» per i migranti in deroga al Codice degli appalti – peraltro appena riformato per sfrondarlo da molti adempimenti – forse non considera che il Codice stesso (art. 140) prevede «procedure in caso di somma urgenza», che consentono «l’immediata esecuzione dei lavori entro il limite di 500mila euro», senza necessità di uno stato di emergenza. Insomma, esistono procedure ordinarie anche per situazioni straordinarie.

In secondo luogo, si dubita che una gestione emergenziale del fenomeno immigrazione possa gettare le basi per soluzioni strutturali, con lo sviluppo di politiche di medio e lungo termine, dall’accoglienza ai progetti di integrazione.

Anche il decreto flussi, molto vantato dal governo, ma finora usato soprattutto per regolarizzare chi è già in Italia, anziché come canale di nuovi ingressi regolari, si sta dimostrando insufficiente. Né lo stato d'emergenza garantisce maggiore fluidità nei rimpatri: senza accordi con i paesi di origine i rimpatri non si fanno, e per stringere tali accordi – come già avvenuto con diversi paesi negli scorsi anni – non serve lo stato di emergenza.

Il rischio è che la situazione di emergenza, ora sancita con apposita delibera, possa essere strumentalizzata oggi, come in alcune fasi della pandemia, per giustificare la limitazione dei diritti dei migranti. Basti pensare alla forte restrizione delle ipotesi di protezione speciale – vale a dire la protezione complementare all’asilo politico e alla protezione sussidiaria – con l’alibi che essa sarebbe un pull factor: ciò è smentito dai numeri delle richieste di asilo, sopra citati, che in Italia sono inferiori rispetto ad altri paesi.

Tale restrizione lascia inattuata una parte dell’articolo 10 della Costituzione, che assicura l’asilo a chi nel proprio paese non siano garantite libertà previste dalla Costituzione italiana, e soprattutto aumenterà il numero degli stranieri irregolari presenti in Italia, vale a dire coloro i quali resteranno privi del permesso di soggiorno consentito dalla protezione speciale, concorrendo ad alimentare quell’emergenza che si vorrebbe arginare.

Ancora, la necessità di «dare risposte più efficaci e tempestive alla gestione dei flussi», cui è preordinato lo stato di emergenza, non potrà “legittimare” una compressione dei tempi delle procedure di riconoscimento per i richiedenti asilo, anche ai fini dell’eventuale rimpatrio, al punto da comprimere pure i loro diritti. L’Italia è già stata condannata per tale tipo di violazione lo scorso 31 marzo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, per fatti avvenuti nel 2017 (caso di J.A. e altri c. Italia, n. 21329/18).

La Corte ha rilevato, tra l’altro, che le condizioni nell’hotspot di Lampedusa erano inadeguate, in contrasto con il divieto di trattamenti inumani o degradanti di cui alla Convenzione sui diritti umani; ai ricorrenti – cittadini tunisini – non era stato dato tempo per comprendere la portata dei provvedimenti adottati nei loro confronti e presentare eventuali ricorsi; soprattutto il loro status non era stato valutato individualmente prima di disporne il respingimento, e ciò equivaleva a un’espulsione collettiva, vietata dalla citata Convenzione.

L’affermazione di Piantedosi

A confermare i dubbi sollevati è intervenuta da ultimo un’affermazione del ministro dell’Interno, secondo cui non c’è un’emergenza migranti, e la dichiarazione di tale stato è solo una «formula tecnica». Ma, se non c’è emergenza, manca la base di fatto che giustifica lo stato eccezionale di diritto. In altre parole, pur non essendoci alcuna emergenza, si è dichiarato il relativo stato solo per poter agire in deroga a norme ordinarie. In epoca Covid avevamo preconizzato che ciò sarebbe potuto accadere. E così è stato.

L’affermazione di Piantedosi appare molto grave, e conferma la ricostruzione che abbiamo fatto circa la strada – propagandistica e strumentale – attraverso cui il consiglio dei ministri è arrivato alla delibera dell’11 aprile. Basterebbe tale affermazione per inficiare provvedimenti adottati nel presupposto giuridico che vi sia un’emergenza reale. Chissà se il ministro è consapevole delle implicazioni delle sue parole: considerate alcune di quelle che ha usato in passato, se ne può dubitare.

© Riproduzione riservata