Non è il «patto sociale» proposto da Mario Draghi e dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, che può essere considerato una risposta alle richieste del M5s, è la parola «voto» presa finalmente sul serio a raddrizzare in extremis il piano ormai inclinato verso la crisi di governo, a fermare il cupio dissolvi grillino e a riportare un certo numero di senatori – ma solo stamattina sapremo effettivamente quanti – con i piedi per terra.

La parola «voto» in realtà circola da giorni, pronunciata da Giorgia Meloni e da Matteo Salvini. Il 30 giugno anche Enrico Letta, l’aveva pronunciata, anche se non direttamente: «Sosterremo fino alla fine questo governo non un altro. Se ci sono traumi non saremmo della partita», aveva detto. Ma ieri il segretario Pd è ancora più definitivo. Riunisce i gruppi parlamentari a Montecitorio. Lì, incorniciato dai suoi e dai cronisti, manda in scena un unico intervento, il suo.

Stavolta anziché attaccare la destra di governo ammette che ormai le macchine sono avviate sulla strada delle elezioni anticipate: «Lo diciamo sommessamente», è la premessa, «non è una nostra ripicca il fatto di dire che se cade il governo si va al voto. È nella logica delle cose visto quel che Salvini e Berlusconi hanno detto. Il governo ha bisogno di una maggioranza, e lo diciamo a tutte le forze politiche». Letta in quel momento viene descritto dai suoi come pronto al peggio, cioè alla crisi, e già «in modalità consultazioni». Una postura rafforzata martedì dall’incontro con Mario Draghi e dalle ben tre telefonate avute con il presidente della Repubblica.

In realtà l’inizio del ripensamento dei Cinque stelle, se ripensamento c’è stato, deve essere datato alla conferenza stampa di Draghi nel pomeriggio di martedì. Sono le sue parole a fare l’effetto doccia fredda sugli entusiasti della rottura. Quando il premier esclude un bis e ribadisce che «per me non c’è un governo senza M5s e non c’è un altro governo Draghi».

E ancora di più – ma qui bisogna avere un minimo di codice politico per decrittare – quando alla domanda se tornerà alle camere in caso di non voto dei Cinque stelle al decreto Aiuti, la risposta è secca, forse anche un po’ seccata: «Chiedetelo al presidente della Repubblica». Per la prima volta dall’inizio del suo mandato si indovina uno scarto, un grado di differenza fra palazzo Chigi e il Quirinale. Se i Cinque stelle non votano la fiducia sul decreto, Draghi sarebbe pronto a trarne le conseguenze, anche se formalmente il loro non sarebbe un voto contrario e la fiducia comunque passasse; per il Colle però non sarebbe un premier sfiduciato.

Senza fiducia

In ogni caso le parole di Draghi sfiorano il paradosso di un premier che non ha più fiducia in una forza di maggioranza, dopo la serie infinita dei tira e molla, e non più il viceversa. Per fermare la crisi Letta mette il suo. Lui stesso ha parlato con Conte, e come lui ha fatto un gruppo scelto di ambasciatori del Pd e non. Fra loro c’è anche il ministro della Salute Roberto Speranza, amico personale del presidente M5s.

Il messaggio è stato sempre lo stesso: Draghi fa sul serio, senza una maggioranza si va davvero al voto, le voci sul bis – esplicitate da Silvio Berlusconi e Matteo Renzi – sono infondate, se anche alla fine la scelta di oggi al Senato sarà quella di alzarsi e non votare la fiducia al decreto Aiuti, Conte renda esplicita la volontà di far proseguire il governo. La manovra di persuasione di cui il leader grillino è oggetto è concentrica. «Nel 1976, il Psi provocò una crisi di governo ed elezioni, convinto di rincorrere a sinistra il Pci. Finì che fu quest’ultimo a fare il pieno nelle urne», twitta il deputato Pd Enrico Borghi. E il sindaco di Firenze Dario Nardella: «I Cinque stelle si prendono una doppia responsabilità, quella di far cadere un governo in un momento così drammatico per il paese e quella di minare le potenziali alleanze che possiamo costruire in vista delle politiche».

Nel pomeriggio arriva una parola dalle alte sfere del Vaticano. Il segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, alla presentazione di un libro, coglie l’occasione per fare la sua parte: «Dobbiamo metterci tutti a lavorare insieme per non arrivare a divisioni all’interno del governo». Parla della crisi sociale, ma l’indirizzo è chiarissimo.

La diplomazia democratica

Ieri il segretario Pd tenta l’ultima drammatizzazione, all’indirizzo non tanto dell’ex premier, che viene dato ormai come convinto e impegnato a convincere i suoi a votare sì alla fiducia, ma dell’ormai ingovernabile gruppo di parlamentari. Mentre da Forza Italia, dalla Lega e anche dal neonato gruppo di Luigi Di Maio arrivano commenti scandalizzati sulla possibile crisi, Letta usa toni più concilianti mentre lancia un appello «alla responsabilità di tutti: andiamo avanti, completiamo l’agenda sociale del governo, i distinguo non trascinino con sé le l’opportunità per tanti italiani». Nell’aria c’è la possibilità di una soluzione positiva, ma dopo cinque ore di Consiglio nazionale M5s non è arrivata una decisione, solo un rinvio alla riunione dei senatori, la sera.

Il segretario Pd parla del suo partito come se già avesse scaricato l’alleato: «Abbiamo vinto le elezioni amministrative di ottobre, quelle di giugno, abbiamo un partito forte, solido, attraente. Come dice Prodi, un partito granitico. Gli italiani sanno che possono fidarsi di noi». E se qualcuno ha accusato il Pd di accidia, Letta spiega il suo metodo: «La politica è mediazione e compromesso, se c’è bisogno di dire una parola in meno noi diciamo una parola in meno, se serve a ottenere il risultato». Comunque la svolta chiesta da M5s «l’abbiamo vista, abbiamo intravisto la possibilità concreta di una svolta sociale perché i prossimi nove mesi siano i mesi in cui il governo risponde alla crisi», l’Italia «ha bisogno di un governo non di una crisi o di precipitare a elezioni a ferragosto».

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