«Come saremo in grado di costruire la pace se non la comprendiamo?» ha lasciato scritto sulla sua pagina Facebook Mohammad Haroun Adam – detto Mahmoud – prima di imbarcarsi e morire in mare il 6 febbraio scorso, davanti alle nostre coste.

Come tanti suoi coetanei africani Mahmoud sapeva cosa rischiava ma la vita non gli ha lasciato scelta. Originario del Darfur, una terra in guerra da inizio millennio e già povera a causa della desertificazione, aveva tentato di istruirsi all’università di Khartoum. Non tutti nascono con il desiderio di migrare e Mahmoud voleva lavorare per la pace nel suo paese.

Ma la guerra lo ha raggiunto anche nella capitale sudanese e non c’è stato nient’altro da fare che tentare il grande balzo verso l’Europa, attraverso la Libia. Per vivere, per sopravvivere, per cercarsi un futuro.

La sua non è una storia insolita o straordinaria: tantissimi giovani africani non hanno scelta o sentono di non averla mentre guardano le immagini di un mondo diverso sullo schermo dei loro cellulari. In Africa acquistare uno smartphone (per lo più cinese) e collegarsi costa molto meno che in Europa: il mercato cerca di attirare tutti a sé e si adatta, pensando a futuri sviluppi. E poi con i social media puoi anche trovare lavoro o cogliere qualche opportunità…

Qui non si tratta dell’Africa ma degli africani, al 60-70 per cento giovani. Il continente ha le sue risorse, le sue ricchezze minerarie, può diventare una piattaforma globale in tanti settori ad iniziare dall’energetico.

L’universo degli underdog

C’è un futuro per l’Africa nella globalizzazione e il mercato se ne sta già occupando, magari a discapito di continenti più vecchi come il nostro. Ma per gli africani è tutta un’altra storia: non tutti potranno godere della nuova fase di crescita, pochi saranno gli inclusi.

Potremmo dire: c’è un universo di underdog che cerca un’occasione. D’altra parte il fallimento della globalizzazione non sta nel non avere creato ricchezza (ne ha prodotta tantissima) ma nel non aver incluso tutti in tale eldorado ed aver approfondito le diseguaglianze.

È un fenomeno che conosciamo anche in occidente: quando si licenzia e si ristruttura la borsa sale. Ancora peggio: dall’inizio della guerra in Ucraina e poi a Gaza la borsa è sempre salita. Il mercato globale ha logiche tutte sue e l’Africa entra in esse. Ma non gli africani.

Una delle cose più assurde è l’assenza della politica su tali scenari: possibile che si lascino proseguire tante guerre senza tentare di arrestarle o perlomeno di attenuarle? Non si vede che la distruzione degli stati è la risultante di tanti conflitti non gestiti?

Dal punto di vista europeo si dovrebbe comprendere che la frammentazione degli stati africani (per non parlare dei mediorientali) crea onde d’urto crescenti che alla fine raggiungono l’Europa.

Davvero i giovani africani non hanno scelta. Libia, stati saheliani, Kivu e Ituri nel Congo democratico, Corno d’Africa con le sue ripetute conflagrazioni, Somalia, Sudan, Sud Sudan ecc. non esistono più come stati funzionanti, a parte il controllo delle capitali e di alcune parti utili al mercato. Tutto ciò è sufficiente a creare quei flussi che non finiscono.

Costruire la pace

Ha ragione Mahmoud: non comprendiamo proprio per niente il valore e il perché della pace. Yassir Arman, un anziano leader delle libertà civili e della democrazia in Sudan e Sud Sudan, è appena stato in Italia ospite della Comunità di Sant’Egidio, e ha lanciato un messaggio chiaro: se non vi occupate di sostenere le forze della pace e della democrazia nel nostro paese, sarete travolti dalle conseguenze.

Negoziare senza sosta per riannodare i fili del futuro: questo dovrebbe essere il mantra dell’Unione europea in Africa. Con il piano Mattei l’Italia si vuole darsi uno strumento rivolto in particolare ai giovani africani: formazione e creazione di imprese. Dalla storia del nostro paese in tali settori sappiamo quanto sia un percorso lungo e complicato.

Serve dunque ingegnosità (che non ci manca) e tanta umiltà perché non esistono bacchette magiche o soluzioni miracolistiche. Serve anche un’azione politica e diplomatica efficace per mediare nelle molteplici crisi e farsi avanti laddove nessuno vuole mettersi in mezzo.

Non è semplice e anche in questo caso è d’obbligo un atteggiamento rispettoso non arrogante. Eppure si tratta di un ambito che ci è congeniale e non impossibile, nel tentativo almeno di abbassare le tensioni. Dobbiamo smettere di puntare al piccolo cabotaggio dei piccoli interessi immediati per scommettere “alla grande” sulla pace in Africa.

Aiuteremo i tanti Mahmoud a costruire le loro patrie. Forse c’è un prezzo da pagare oggi ma molto da conquistare domani. È ora di agire, ad iniziare dalla Libia. 

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