Il neo-ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida ha annunciato ieri che la sua priorità è la sovranità alimentare e la tutela della dieta mediterranea, ma il successore di Stefano Patuanelli ha rilasciato in ben due interviste, dichiarazioni piuttosto confuse, su tre punti centrali: la battaglia contro il Nutriscore, la modifica della Politica agricola comune europea e la rimozione del limite dei terreni incolti.

Il Nutriscore

Il Nutriscore è da anni uno dei bersagli preferiti da Fratelli d’Italia. Nell’ultima legislatura sono stati tanti i sit-in di fronte alla Camera in cui i parlamentari meloniani si scagliavano contro il sistema di valutazione degli alimenti in base al loro valore nutrizionale. Nella narrazione di Fratelli d’Italia (non dissimile dalla linea politica che ha portato avanti anche Patuanelli), il sistema elaborato da esperti francesi sarebbe un attacco alla dieta mediterranea. Il metodo funziona per colori, con gli alimenti valutati come “migliore” in base al valore nutrizionale classificati nella categoria A, identificata con un colore verde scuro. A seguire, verde chiaro, giallo, arancione e rosso, fino ad arrivare alla categoria E, la peggiore.

Secondo i critici, il sistema è difettoso per quanto riguarda la valutazione dei grassi e penalizza prodotti tipici italiani e caratteristici della dieta mediterranea come olio d’oliva, salumi e formaggi: in realtà, l’obiettivo del Nutriscore è quello di raccomandare un uso più frequente di certi prodotti rispetto ad altri. Da questo punto di vista, il sistema è del tutto in linea con le raccomandazioni della dieta mediterranea che corrisponde alla piramide alimentare: alla base, frutta e verdura, poi carboidrati, a seguire, quasi in cima, proteine come latticini e carne. Insomma, se quei prodotti hanno una valutazione “peggiore” è solo perché andrebbero consumati meno di frequente. Secondo Lollobrigida, gli strumenti di «classificazione dei prodotti pregiudizievole per l’agroalimentare italiano» vanno combattuti. Peccato che di pregiudizievole, nel sistema che molti paesi del nord Europa hanno già adottato, ci sia poco o niente. Inoltre, sembra oramai improbabile che il metodo venga implementato così come è stato proposto in Francia.

Sia perché a gennaio la presidenza dell’Unione passerà alla Svezia, che utilizza un altro sistema, sia perché l’opposizione di Roma e di altri partner Ue favorisce altre soluzioni. Insomma, l’esito della battaglia di Lollobrigida, inutile nel merito, è comunque già deciso.

I terreni incolti

Lollobrigida promette anche di intervenire su «un milione di ettari di terreni incolti. Vogliamo togliere il limite ai terreni incolti con un piano strategico di coltivazione». Il limite a cui fa riferimento il neoministro sono i terreni destinati al Set aside, ossia uno strumento previsto dall’Ue per migliorare il prezzo che i produttori possono ottenere dalle loro coltivazioni. «Esiste dal 1992 per ridurre il potenziale produttivo per beni eccedenti», spiega Michele Fino, professore associato all’università di Scienze gastronomiche di Pollenzo.

Tradotto: diminuendo l’offerta dei beni che l’Ue produce in quantità eccedente, il prezzo che gli agricoltori possono ottenere si alza. Ma il Set aside è uno strumento del tutto volontario a cui si aderisce in cambio di sussidi. «La suggestione è che dopo che Giorgia Meloni a Villaggio Coldiretti qualche settimana fa ha parlato di sovranità alimentare, in Italia non possano esserci terreni incolti», dice Fino.

Secondo FdI, lo sfruttamento di tutti i terreni disponibili può contribuire a risolvere i problemi derivanti dalla crisi ucraina, che ha avuto un impatto sulle forniture di prodotti come il grano duro. Ma anche smettendo di far uso del Set aside, l’Italia non riuscirebbe a essere autonoma nella produzione dei cereali: i prezzi esteri continuerebbero a essere più bassi. «In un sistema di mercato aperto, la produzione nazionale conviene soltanto se i prezzi sono competitivi», dice Fino. I prodotti che attualmente importiamo e che non potremmo mai produrre in autonomia sono spesso essenziali per la produzione di altro made in Italy, come nel caso del Parmigiano Reggiano e del prosciutto San Daniele. Bovini e suini impegnati per quelle filiere vengono nutriti con cereali d’importazione.

La modifica della Pac

Il neoministro non lesina critiche anche alla Pac, la politica agricola comune: una posizione curiosa, considerato che Fratelli d’Italia aveva votato a favore a dicembre 2021. «Non basta quello che ci mette a disposizione l’Europa e quindi è necessaria una riforma della Pac che si liberi dall’ideologia intrinseca del Farm to fork». Il Farm to fork è la strategia per guidare la transizione agricola verso un sistema alimentare equo e rispettoso dell’ambiente. «Liberarsene» vorrebbe dire rivedere i principi fondanti della Pac, cioè quelli appena approvati.

Difficile che Roma possa ottenere una ridiscussione. Anche opporsi su altri dossier potrebbe essere controproducente perché comporterebbe lo stop ai finanziamenti europei: il primo appuntamento buono per riaprire la questione non arriverà prima del 2025. «Devono passare almeno tre anni prima che si possano ridiscutere gli obiettivi», dice Fino. Inoltre, il piano nazionale definitivo per l’Italia è stato consegnato lo scorso 30 settembre da Patuanelli a Bruxelles. I margini d’intervento rimasti sono quelli che riguardano i bandi regionali per lo sviluppo rurale, pari al 30 per cento dei fondi. Gestendo bene il rapporto con le regioni, Lollobrigida potrebbe presentare a Bruxelles progetti che privilegiano le priorità del centrodestra, ma rimanendo nelle linee guida dell’accordo Ue.

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