Un emendamento alla legge di Bilancio per cancellare il Jobs act. La sinistra del Pd apre così la battaglia congressuale utilizzando il voto parlamentare sulla manovra finanziaria. Finito il tempo delle parole, è l’ora delle prese di posizione. E la mossa non è una casualità o l’iniziativa non concordata di qualche deputato in cerca di visibilità. La proposta, che figura tra le segnalate che saranno esaminate nei prossimi giorni in commissione Bilancio alla Camera, porta la firma di Andrea Orlando, capo della corrente dem che chiede uno spostamento a sinistra del partito. L’iniziativa è stata sottoscritta, tra gli altri, da vari personalità di peso di quell’area, come l’ex segretario del Pd, Nicola Zingaretti, l’ex sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola, gli esponenti di Articolo 1, Federico Fornaro e Arturo Scotto, ma anche deputati di spicco come Gianni Cuperlo, Michela De Biase, Alessandro Zan e la candidata alla segreteria dem, Paola De Micheli.

Una pattuglia molto nutrita, che conta nomi che di fatto recitano il mea culpa sull’approvazione della riforma voluta da Matteo Renzi, allora premier e segretario Pd. Allora Orlando era ministro del governo che approvò la legge, ne difese l’impostazione, mostrando giusto qualche perplessità sulla questione dei licenziamenti collettivi. Ma senza fare barricate. Una linea molto distante da quella attuale, benché già nell’ultima campagna elettorale, Orlando avesse annunciato la battaglia politica per tornare indietro.

Lotta al Jobs act

Foto LaPresse

L’obiettivo dell’emendamento è chiaro: abrogare per intero il decreto legislativo che interviene sul «contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti», spazzando via pure le normative sui licenziamenti.

Senza troppi giri di parole: si punta a cancellare l’architrave della riforma voluta dall’allora governo Renzi. Proprio sui licenziamenti vengono indicati dei nuovi criteri da parte di Orlando, che prevedono risarcimenti al lavoratore (variabili dalle sei alle diciotto mensilità) sulla base delle sentenze dei giudici emesse sui singoli casi.

Al netto dei contenuti, conta la sfida lanciata in parlamento per mettere i deputati del Pd di fronte a una scelta. Dovranno infatti optare per la conservazione dello status quo, esprimendosi a favore del mantenimento del Jobs act, o per lanciare un segnale in materia di lavoro, pur nella consapevolezza che non ci sono i numeri per l’approvazione.

Così il voto può diventare il detonatore delle divisioni tra la sinistra e gli ex renziani di Base riformista, guidati dal neo presidente del Copasir Lorenzo Guerini, schierati a sostegno della candidatura di Stefano Bonaccini per la segreteria, oltre alle altre correnti vicine al presidente della regione Emilia-Romagna. Un voto da lasciare a futura memoria per il congresso in arrivo.

La grande assente

Foto LaPresse

D’altra parte anche il centrodestra è chiamato a compiere una scelta, ponendosi insieme al terzo polo a difesa della riforma che all’epoca hanno contestato: Lega e Forza Italia non parteciparono al voto in segno di protesta.

Un’assenza spicca, comunque, tra i sottoscrittori del testo di Orlando: quella di Elly Schlein che, a differenza di molti altri oggi schierati per l’abolizione, ha sempre osteggiato il Jobs act.

All’atto pratico non ha messo la firma, benché nell’elenco appaia il nome di un suo fedelissimo, Marco Furfaro. E del resto la candidata alla segreteria del Pd, fresca di tesseramento alla Bolognina, sulla legge di Bilancio ha assunto una linea prudente, almeno in materia di emendamenti.

Figura come co-firmataria di sette proposte in totale, tra cui quelle sul potenziamento degli organici di questure e prefetture per «potenziare i servizi per l’immigrazione e rendere efficaci le procedure per il rilascio e il rinnovo dei titoli di soggiorno», l’implementazione delle misure di screening del tumore alla mammella e su Opzione donna. Non c’è però alcun testo presentato con il suo nome in cima.

Patrimoniale divisiva

Ci sarà anche un altro punto su cui dovrà esprimere una posizione, ben prima della mozione congressuale: l’introduzione di una patrimoniale. Il tema può alimentare ulteriori spaccature nel Pd, non dissimili da quelle relative al Jobs act.

Un emendamento alla legge di Bilancio, depositato dai deputati di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni e Marco Grimaldi, chiede infatti l’istituzione di «un’imposta ordinaria sostitutiva sui grandi patrimoni».

La prima fascia individuata dai due proponenti è quella tra 500mila e un milione di euro, che prevede un prelievo dello 0,2 per cento. Così l’aliquota aumenta fino a raggiungere il due per cento per valori di patrimoni netti superiori ai 50 milioni di euro.

Come per la proposta sul Jobs act, le possibilità di approvazione del testo sono prossime allo zero per la contrarietà della maggioranza e di parte delle opposizioni, con Carlo Calenda e Matteo Renzi in testa.

La questione diventa in ogni caso spinosa per il Pd. A cominciare proprio da Schlein, che da sempre è stata sostenitrice dello slogan Tax the rich di Alexandria Ocasio-Cortez, paladina della sinistra progressista statunitense.

C’è una fetta consistente dei dem decisamente più ostile alla patrimoniale, fatto salvo qualche caso come quello di Matteo Orfini (in passato al fianco di Fratoianni su questa battaglia), che tuttavia è indicato tra i sostenitori di Bonaccini. Ma il presidente della regione Emilia-Romagna non è un tifoso di questa misura: a settembre, in campagna elettorale, ha sostenuto che nel programma del suo partito non vi fosse alcun tipo di patrimoniale. 

© Riproduzione riservata