«La marcia su Roma che turba i sogni del socialismo si deve intendere non tanto come marcia militare che conduca a una nuova breccia di Porta Pia, quanto una marcia spirituale della nuova generazione verso il governo per liberare Roma da una classe politica pusillanime e dalle cricche parassitarie socialiste che vivono sullo stato liberale come i vermi su un cadavere».

Siamo nell’agosto del 1922 e la prosa è quella di Gaetano Polverelli, giornalista e figura centrale nella macchina dell’informazione fascista: sarà lui l’ufficio stampa del duce che inventerà le direttive per i giornali, le famose veline. Il giornale dal quale abbiamo letto è naturalmente il Popolo d’Italia, fondato e diretto da Benito Mussolini.

Il quale Mussolini nel mezzo dell’estate rilascia un’importante intervista al Mattino di Napoli che prende tutta la prima pagina di sabato 12 agosto, eccola:

«Mussolini espone al Mattino le grandi mete che si propone oggi il fascismo». 

La domanda più attesa l’avevamo già letta, lasciata in sospeso nella precedente puntata: «Potete dirmi nulla di un argomento che appassiona assai in questo momento l’opinione pubblica, la marcia del fascismo su Roma?». Ecco adesso la risposta del capo del fascismo: «La marcia su Roma è in atto. Non si tratta, intendetemi bene, della marcia delle cento o trecentomila Camicie nere inquadrate formidabilmente nel fascismo. Questa marcia è strategicamente possibile, attraverso le tre grandi direttrici: la costiera adriatica, quella tirrenica e la valle del Tevere che sono - ora - totalmente in nostro assoluto potere. Ma non è ancora “politicamente” inevitabile e fatale … Che il fascismo voglia diventare Stato è certissimo, ma non è altrettanto certo che per raggiungere tale obiettivo si imponga il colpo di Stato».

Ma perché proprio al Mattino di Napoli quest’intervista? Eccolo spiegato.

Domanda: «È vero che si terrà in settembre una grande adunata fascista a Napoli per dare avvio alla vostra conquista del Mezzogiorno d’Italia?»

Risposta: «Precisiamo. Non si tratta di una vera e propria adunata, ma della convocazione del Consiglio nazionale del partito con l’intervento di un centinaio e mezzo di persone, come chi dicesse, insomma, lo stato maggiore del fascismo italiano … Questo Consiglio non in settembre si terrà ma in ottobre, forse il 24, giorno che ricorda la battaglia finale della guerra italiana. È possibile che durante i lavori del Consiglio si effettui un grande concentramento di camicie nere di tutta la Campania. Anche per dimostrare che la conquista fascista del Mezzogiorno d’Italia è già ben avviata».

Marcia spirituale o marcia militare? Il 15 settembre in una valle piemontese si riuniscono alcuni capi del partito nazionale fascista. Approvano il regolamento della milizia fascista. Il giornale del partito, il Popolo d’Italia, lo pubblicherà solo venti giorni dopo, sull’edizione del 3 ottobre. Ufficializzando così in questo modo l’esistenza di una formazione militare parallela a quella dello stato, composta di volontari iscritti al fascio. Nei 61 articoli del “regolamento di disciplina” firmato dai prossimi quadrumviri della marcia su Roma Devecchi, De Bono, Balbo e Bianchi si leggono cose come «Il milite fascista conosce soltanto doveri. Ha solo il diritto di compiere il dovere e gioire» oppure in un altro articolo «L’ubbidienza deve essere cieca, assoluta, rispettata fino al culmine della gerarchia al Capo Supremo».

Siamo ai primi di ottobre, dunque. La situazione politica è esposta con grande chiarezza da un editoriale de La Stampa del 7 ottobre che apre il giornale.

«Lo Stato e il fascismo. La doppia crisi»

Non è firmato ma è chiaramente del direttore, Alfredo Frassati che inizia in polemica con liberali e monarchici che avevano creduto nel fascismo come soluzione dei problemi della nazione. Il fascismo, spiega in sostanza Frassati, non vuole aiutare lo Stato, vuole sostituirsi allo Stato. E scrive:

«Dunque, o colpo di Stato, marcia su Roma nel senso materiale della parola, o libere elezioni in un ambiente normalizzato. Ma il verificarsi di queste condizioni richiede l’esistenza di un governo forte, a tale governo possono partecipare i fascisti medesimi: la democrazia che deve sempre più nettamente distinguersi da loro come partito può invece, nelle presenti circostanze ed a certe condizioni, richiederne e accettarne il concorso nel governo per il ristabilimento dell’ordine interno. Ma perché ciò possa avvenire con dignità ed al tempo stesso con efficacia occorre a capo del governo un uomo la cui figura politica assicuri agli uni il mantenimento del regime liberale e democratico e agli altri l’esercizio di quella energia nazionale da essi - e non da essi soltanto - giustamente richiesta: un uomo, che, posto ormai al disopra dei partiti, affidi tutta la nazione, e al tempo stesso per la sua esperienza e capacità possa affrontare la situazione difficilissima, compensando l'immaturità politica e l'inesperienza di governo dei nuovi collaboratori. Non occorre dire il nome di quest'uomo, perché esso è già sulla bocca di tutti gli Italiani».

È Giovanni Giolitti naturalmente, il più importante e potente uomo politico del Regno, giunto ormai alla vigilia degli ottant’anni che si prepara a festeggiare nel ritiro campestre di Cavour. Al Viminale, che era all’epoca la sede della presidenza del Consiglio, in quel momento c’è il debolissimo Luigi Facta. La crisi di governo non è ancora dichiarata ma è come se fosse già aperta.

Le violenze fasciste da nord a sud non sono più il rumore di fondo dell’ultimo anno, adesso sono azioni mirate che si concludono con la conquista di municipi, caserme, prefetture. Il governo è inerme. Le trattative sotterranee per un nuovo esecutivo procedono in più direzioni, tutte tenute strumentalmente aperte da Mussolini: governo Salandra, governo Nitti, terzo governo Facta, governo Giolitti. Tutte le soluzioni includerebbero i fascisti e certamente escludono ormai i socialisti, che pure sull’opportunità di partecipare al governo durante la crisi di luglio si sono spaccati. La divisione avviene ufficialmente proprio in quei giorni di inizio ottobre, nella casa del Popolo di Roma.

*Andrea Fabozzi è giornalista del manifesto Per ascoltare le cinque puntate del podcast «1922 Italia anno zero. La marcia su Roma nei giornali di cento anni fa»

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