Nella storia italiana, nessuna data come il 28 ottobre 1922, giorno della marcia su Roma, merita la definizione di “giorno della vergogna”. Generalmente, questa espressione viene utilizzata per l’8 settembre 1943, giorno in cui fu annunciato l’armistizio con gli Alleati mentre il re Vittorio Emanuele III e il governo Badoglio fuggivano a Brindisi.

Indubbiamente, l’8 settembre 1943 è stato un giorno molto triste per l’Italia, che evidenziò il totale fallimento della classe dirigente e la sua fuga da ogni responsabilità. Ma questo fallimento e questa fuga venivano da lontano e cioè da quando il fascismo aveva preso il potere con la forza senza incontrare resistenza, dando avvio all’avventura che ha portato vent’anni dopo l’Italia alla guerra e alla sconfitta, di cui l’8 settembre 1943 ha rappresentato l’inevitabile epilogo.

La marcia su Roma non fu un fulmine a ciel sereno. Fu preceduta da anni di comportamenti illegali, di proclami minacciosi, di insurrezioni promesse. Anni, soprattutto, di violenze: il numero di morti, feriti, vittime di aggressioni, persone minacciate è impressionante. Per non parlare di sedi politiche o istituzionali occupate, distrutte, bruciate, di manifestazioni interrotte, di persone terrorizzate, di cittadini umiliati. Si stenta a credere che tutto ciò non abbia provocato normali interventi di ordine pubblico o reazioni straordinarie da parte dello stato e che abbia potuto contare sulla passività o sulla complicità di grandissima parte della classe dirigente.

In nessun altro periodo della storia italiana è avvenuto qualcosa di simile. Gli “anni di piombo” e cioè quegli anni Settanta spesso ricordati come anni di estrema debolezza dello stato non sono certamente paragonabili ai primi anni Venti del Novecento. È ancor oggi inquietante ripercorrere i giorni che precedettero la marcia su Roma, che non fu l’evento folkloristico tanto spesso descritto dalla cinematografia.

Di questo progetto insurrezionale trattarono allora molti giornali e gli informatori ne dettero dettagliatamente notizia a polizia e carabinieri. Anche molti fascisti ne parlarono apertamente, sicuri della loro impunità e orgogliosi di esibire il loro disprezzo per le istituzioni. Eppure non venne predisposto alcun piano per fermarli e i documenti delle autorità di pubblica sicurezza o degli alti gradi dell’esercito tradiscono la consapevolezza che molti dei loro sottoposti fossero dalla parte dei fascisti.

La politica della violenza

È anche significativo che la marcia su Roma sia stata accompagnata da una serie di atti insurrezionali in molte città italiane, in genere con la complicità delle autorità locali, come ha ben documentato Giulia Albanese. La scelta con cui la suprema autorità dello stato, il re Vittorio Emanuele, consegnò la guida del governo al capo dei rivoltosi fu insomma l’epilogo di una capitolazione dello stato lungamente preparata.

La marcia su Roma ha costituito il terzo passaggio – il più importante – del processo attraverso cui il fascismo ha imposto la violenza quale principio di governo. Il primo, com’è noto, fu l’azione delle squadre fasciste, che a partire dal 1920 svilupparono – in un contesto di sostanziale impunità – una strategia della violenza soprattutto in provincia ma in parte anche nelle città. L’obiettivo fondamentale di tali squadre era difendere gli interessi di industriali e agrari, com’è stato riconosciuto pressoché da tutta la storiografia. Ma già in questa fase tale violenza aveva anche una valenza anti-istituzionale: l’assalto a Palazzo d’Accursio a Bologna, sede del consiglio comunale, è in questo senso emblematico.

Il secondo passaggio è stata la costituzione del Partito nazionale fascista, con cui fallì il progetto di una pacificazione sociale e del rientro del fascismo nella legalità: le “squadre di combattimento” divennero la base organizzativa del partito. In questo modo nacque in Italia una formazione politica che perseguiva esplicitamente l’obiettivo di conquistare il potere con la violenza, contro i principi fondamentali dello stato liberale. Il 28 ottobre 1922, infine, questo partito-milizia si impadronì del potere, attraverso un mix di violenza realizzata e minacciata, fondando uno Stato totalitario basato proprio sull’uso politico della violenza.

Tale percorso spinge a chiedersi, ancora una volta, da dove veniva la scelta della violenza e perché non fu fermata. Per spiegare le origini del fascismo si è spesso parlato di mentalità autoritaria ancora largamente diffusa, di passaggio da una società d’élite a una società di massa, di una crisi economica particolarmente grave, di paura per la rivoluzione bolscevica, di biennio rosso… Sono tutti elementi veri, anche se hanno avuto pesi diversi. Per quanto riguarda invece la questione specifica della violenza, la discussione si è concentrata soprattutto sull’eredità della guerra. Già diversi anni fa George Mosse parlò di brutalizzazione della politica post-bellica un po’ in tutta Europa, a seguito dell’esperienza della guerra: durante il Primo conflitto mondiale milioni di persone fecero l’abitudine alla violenza e alle sue vittime, portando poi questo atteggiamento nella vita civile post-bellica.

Studi successivi hanno ridimensionato in parte questa intuizione, che resta tuttavia importante. A essa si deve aggiungere l’elemento della guerra come luogo di formazione di un nesso particolare tra politica e violenza, di genesi di una vera e propria “politica della violenza”.

La dicotomia amico-nemico

La guerra, qualunque guerra, comporta infatti la riduzione di tutti i rapporti a una contrapposizione assoluta amico-nemico. Tra popoli diversi, ovviamente, ma anche all’interno degli stessi popoli: si pensi alla figura del “nemico interno” cui vengono ricondotti – nell’esasperazione bellica – non solo i traditori e le “quinte colonne” ma anche i “disfattisti” e i “panciafichisti”, e persino chi cerca semplicemente di interrogarsi sulle cause della guerra, sul suo andamento, sui suoi possibili sbocchi: in guerra, anche solo pensare è sospetto.

Nemici interni diventano in pratica tutti quelli che si allontanano per i motivi più diversi dalla concentrazione sulla vittoria attraverso l’annientamento del nemico. Tale logica tipicamente bellica – di cui abbiamo visto svariati esempi anche durante la guerra russo-ucraina – è stata trasposta dal fascismo nel confronto politico post-bellico. Il fascismo, infatti, ha applicato alla politica italiana una contrapposizione amico-nemico nella prospettiva dell’eliminazione – fisica o sociale – dell’altro mediante l’uso della violenza.

A questo radicale snaturamento della politica lo stato non oppose anticorpi validi. Anche in questo caso, le ragioni storiche sono state molte. Indubbiamente, c’era chi incoraggiava questa violenza, come gli agrari e gli industriali che finanziarono le “squadracce” fasciste nella loro azione contro socialisti e popolari. Il fascismo inoltre giustificò la propria azione in contrapposizione a una violenza rivoluzionaria che indubbiamente ci fu e che lo stato contrastò solo in parte.

Responsabilità

I popolari a loro volta reagirono troppo debolmente alla violenza fascista, tanto da entrare nel governo Mussolini dopo la marcia su Roma. Molte responsabilità, soprattutto, furono della classe dirigente liberale, che già in precedenza aveva adottato spesso comportamenti illiberali ma che non opponendosi alla marcia su Roma fece qualcosa di molto più grave, decretando così la sua fine. Il 28 ottobre 1922 – ha scritto Roberto Vivarelli – tramontò lo stato liberale in Italia.

Il comportamento dei liberali davanti al fascismo è stato spesso stigmatizzato. Come ha osservato Vivarelli, «uno stato liberale, cioè uno stato retto da libere istituzioni e che riconosce uguali diritti a tutti i cittadini, ha il dovere di garantire che la lotta politica si svolga tra i vari contendenti su un piano di parità. La presenza tra i contendenti di un partito armato […] era una palese violazione di questa elementare regola […] L’esigenza di porre fine a questa anomalia appariva pertanto ovvia».

Ma se ciò non avvenne non fu solo per il “tradimento” dei liberali, bensì anche perché i loro principi si rivelarono non sufficientemente forti per imporsi. Nell’Italia post-bellica era venuto meno il presupposto fondamentale dello stato italiano – e di ogni stato – e cioè il senso di appartenenza alla stessa comunità politica: dopo la guerra, in altre parole, gli italiani non si sentivano parte di un unico popolo.

Quando ciò accade – e cioè in momenti di crisi grave – viene meno la percezione di partecipare a una lotta politica tra forze diverse anche aspra ma fondata su regole condivise e prevale invece il senso di un conflitto senza regole tra gruppi radicalmente antagonisti. È quanto avvenne nell’Italia post-bellica in cui era ancora molto viva non solo l’assuefazione alla violenza, ma anche la logica della contrapposizione totale amico-nemico, non soltanto in rapporto al “tedesco” ma anche al “nemico interno” e cioè all’italiano “non abbastanza italiano”, perché percepito come troppo tiepido contro la straniero, dunque suo complice volontario o involontario e, perciò, assimilabile allo straniero: in definitiva, da eliminare.

Tale logica ha un forte impatto psicologico e sociale, e produce effetti molto disgreganti, che finiscono per erodere l’unità di un popolo: non è vero infatti che la contrapposizione a un nemico esterno rafforza la sua identità o ne alimenta la coesione interna, la solidarietà che si crea in questi casi è vera ma superficiale e copre processi profondi di segno opposto.

I fascisti furono tra coloro che vissero con più intensità il senso di una guerra tra italiani e che più lo sfruttarono per il proprio successo politico, muovendosi in spregio delle istituzioni comuni. Si comportarono cioè, sotto molti aspetti, da anti-italiani, malgrado la loro retorica nazionalista. Ma se riuscirono a prevalere, pur costituendo una minoranza, fu perché il clima di “smembramento della comunità” aveva contagiato molti e svuotato lo stato della sua forza.

Le istituzioni, infatti, dipendono dalle scelte e dai comportamenti di coloro che le rappresentano e in quel contesto tanti, nelle forze dell’ordine o nell’esercito, non difesero l’interesse della collettività e seguirono la logica della guerra civile, mettendosi dalla parte dei fascisti. A nulla servirono le innumerevoli circolari di Ivanoe Bonomi ai prefetti per fermare illegalità e violenza.

Nell’Italia dei primi anni Venti ci sarebbe stato bisogno di rifondare la “comunità degli italiani”. Ma era un compito che superava le capacità dello stato liberale, i cui principi presuppongono l’esistenza di una comunità politica e non sono in grado di costituirla.

Fallì allora anche la via democratica a una rifondazione degli italiani attraverso il passaggio della guida dello stato nelle mani dei partiti di massa. Tale passaggio avrebbe avuto successo solo dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, quando la Chiesa – a differenza del primo dopoguerra – si sarebbe spesa apertamente per far nascere un’Italia unita e democratica. Ma questa è un’altra storia.

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