«Noi verremo contrastati con ogni mezzo anche non proprio legittimi temo, ma in fin dai conti è un bene. Gli avversari sono sempre un bene perché ti spingono a fare meglio». Giorgia Meloni mette le mani avanti nell’intervento conclusivo di Atreju e offre al suo elettorato un primo antipasto del 2024.

La narrazione è sempre la stessa, la rivendicazione dell’orgoglio – la parola e gli aggettivi derivati ricorrono decine di volte nel discorso, ma d’altronde l’orgoglio italiano è il titolo di questa edizione – da parte di un’Italia sempre schiacciata perché affiliata alla parte politica sbagliata. Una strategia, che paga, a giudicare dai sondaggi che danno FdI ancora saldamente sopra il 28 per cento dei consensi e condivisa anche dall’alleato Santiago Abascal che l’ha accompagnata sul palco ieri. Meloni cerca ancora di porsi come rappresentante di quell’«Italia stanca di essere scavalcata», ma continuare a indossare i panni dell’underdog dopo che per un anno la destra ha occupato incarichi, fermato treni e diffuso informazioni privilegiate è un’impresa difficile anche per un’habitué dei comizi com’è la premier.

Genuinità

Ma l’impressione è che Meloni abbia grande interesse a smentire quei dubbi che iniziano a infestare anche il suo elettorato, quelle pulci nell’orecchio che la dipingono ormai lontana dalla ragazza della Garbatella che, dice un esponente di primo piano del partito, «riesce a entrare in empatia con tutti». «Tornata a casa», come dice lei, coglie l’occasione per tornare a mostrarsi per la donna genuina con cui tanti nel 2022 si sono identificati: abbracci e carezze ai militanti, un «grazie tesò» urlato dal palco a un fan e un «oh rega’, se mòre de caldo» mentre si sfila la giacca del tailleur.

Per dimostrare che nonostante palazzo Chigi non è mai cambiata, Meloni rispolvera anche il vecchio album dei nemici: a partire da Elly Schlein – per cui evoca addirittura Ecce bombo di Nanni Moretti, «mi si nota più se vengo e sto in disparte o se non vengo?» – che accusa di non avere «il coraggio» che hanno avuto coloro che invece hanno accettato l’invito per Atreju. Giuseppe Conte non merita neanche una citazione esplicita, ma a tutti è chiaro di chi si parla quando la premier fa riferimento al politico che faceva campagna elettorale promettendo la possibilità di ristrutturare «gratuitamente» la propria casa oppure quando parla del reddito di cittadinanza, rivisto dal governo in maniera talmente drastica che Bankitalia ha certificato una riduzione di 1.300 euro in media all’anno e un restringimento della platea di beneficiari di 900mila famiglie.

Ma nonostante Meloni continui a promettere spalle larghe e resistenza alla sua gente, l’allerta sugli attacchi, anche quelli «bassi e meschini», che continueranno sembra già un modo per calciare il barattolo un po’ più in là, al prossimo episodio che si possa leggere come un attacco dovuto alla sola identità politica di Meloni e i suoi.

Quasi un’eco, più generico, delle parole sulla magistratura pronunciate dal suo ministro della Difesa Guido Crosetto qualche settimana fa, in cui qualcuno ha visto l’anticipazione di un’inchiesta che starebbe per esplodere.

Molto poco, sicuramente, di istituzionale, ma effettivamente però l’anno da passare in rassegna è scarno in termini di appigli, i riferimenti alle grandi imprese ancora da compiere – premierato, autonomia, riforma della giustizia quelle citate esplicitamente dalla premier – sono declinati tutti al futuro, per «l’anno che sta arrivando», che «tra un anno passerà». Quello passato è tutto decreto rave, sgomberi e reato universale di gestazione per altri (continua l’ironia di curare il florido rapporto con l’imprenditore sudafricano Elon Musk, che vi ha già fatto ricorso).

Ampio spazio anche al dossier Caivano, con un velenoso riferimento a un altro grande classico del repertorio della destra, Roberto Saviano: «Storie da raccontare che nessuno scrittore racconta, forse perché i camorristi fanno vendere molto di più, ci si fanno le serie televisive, regalano celebrità, ricchezza e magari un pulpito da New York da cui dare lezioni di legalità agli italiani, sempre si intende a pagamento». Nel mirino finisce addirittura Chiara Ferragni, che «fa finta beneficenza».

Lo strappo di Salvini

Meloni propone come punto di ripartenza per il nuovo anno l’immigrazione. Piatto forte dell’iniziativa già nei giorni scorsi, la premier si intesta il cambiamento di linea in Europa, con la deduzione di una nuova strategia di Bruxelles che, preso atto dell’impossibilità di ridistribuire i migranti, collaborerebbe al progetto di tenere i migranti lontani dalle coste italiane. Non può ovviamente mancare l’attacco diretto a, Maurizio Landini: «Curiosamente aumentano anche gli scioperi generali dei sindacati. Vacci a capire... Sono gli stessi che fanno la morale sul salario minimo poi accettano contratti da 5 euro all'ora».

Landini, però, è anche l’avversario prediletto da Matteo Salvini, che la rassegna dei nemici da indicare ai militanti l’ha inventata. «Onore e onere di un ministro di un governo politico precettare. Landini se ne farà una ragione».

Antonio Tajani, il terzo leader del governo a intervenire, punta tutto sulla riforma della giustizia cara al suo elettorato,ma deve incassare un sonoro schiaffone sul superbonus da parte di Meloni, che con l’accusa di aver sfondato i conti pubblici mette un punto alle ambizioni di Forza Italia di prolungare il finanziamento.

Mentre Tajani esce lascia Atreju con un metaforico occhio nero, il segretario della Lega sceglie i suoi nemici – Schlein e Conte non sono neppure citati, ma tornano gli «anarchici e i centri sociali» – e punge Meloni in diversi passaggi. Scarta da Fratelli d’Italia ricordando che le auto elettriche di Musk sono sì interessanti, ma che «non solo», perché sarebbe «un regalo alla Cina», ricorda che il Mes «è dannoso» e ribadisce che sarà il parlamento a decidere.

La freccia per sorpassare la premier a destra è già innestata. Salvini raccomanda a tutti di pensarlo quando il prossimo 12 gennaio sarà in tribunale «orgoglioso di aver difeso il mio paese» e dichiara di essere perfettamente a suo agio «da secondo con Giorgia al comando». Ma la linea vera per le europee arriva nel passaggio successivo: «Non sono un sostenitore de “l’importante è partecipare”, è una roba da sfigati. Competi per vincere».

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