«La Lega sarà sempre dalla parte delle forze dell’ordine». Le terribili immagini dei pestaggi pubblicate in esclusiva da Domani, le storie delle torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere raccontate già nei mesi scorsi da Nello Trocchia, non smuovono di un millimetro Matteo Salvini. La competizione a destra non ammette cedimenti e dubbi. Quindi, annuncia il leader del Carroccio, «giovedì sarò a Santa Maria Capua Vetere per portare la solidarietà mia e di milioni di italiani, a donne e uomini della polizia penitenziaria che lavorano in condizioni difficili e troppo spesso inaccettabili».

È inutile dire all’ex ministro dell’Interno che sotto inchiesta non ci sono tutte le donne e gli uomini che lavorano nelle carceri, ma 117 agenti accusati di aver violato ogni legge e regola possibile. Dalla Costituzione, al codice penale, ai regolamenti interni. “Squadrette” di agenti col volto coperto dai caschi e dalle mascherine che hanno cancellato ogni diritto delle persone detenute. Con una sola legge da rispettare: quella del manganello.

Altrettanto inutile dire a Salvini che la Lega è stata al governo nel passato, ha avuto ministri della Giustizia, è stata al governo in tempi recentissimi con il Conte I, ed è al governo oggi con Draghi. Il tempo e la possibilità di migliorare la situazione carceraria e le condizioni di lavoro degli agenti, Salvini lo ha avuto. Ma questo non conta, perché il copione scritto dalla destra in questi casi è sempre lo stesso. Solidarietà incondizionata alle forze dell’ordine, anche alle “schegge” impazzite.

Casi Aldovrandi, Cucchi, il nemico è chi cerca la verità. Campioni di questa linea Salvini, Carlo Giovanardi, Giorgia Meloni. Andò così anche vent’anni fa a Genova, con Gianfranco Fini e i ministri che presidiavano la sala operativa della Questura durante gli scontri, e la difesa ad oltranza di agenti e funzionari per la «macelleria messicana» della Diaz e le torture a Bolzaneto.

Un meccanismo che produce consensi tra chi indossa una divisa. La presa della destra sulle forze dell’ordine, la sua inscalfibile egemonia, è un dato incontestabile. Vincono le loro parole d’ordine, perché altre non ce ne sono. È un “populismo” becero applicato alle politiche sulla sicurezza: sto al governo, faccio poco o nulla per migliorare le condizioni generali, e pochissimo per migliorare quelle di agenti e militari, ma, caro poliziotto o carabiniere, sono con te, tu hai sempre ragione.

La sinistra, il mondo progressista e democratico, al massimo balbettano qualcosa. Anche loro hanno avuto negli ultimi decenni ministri dell’Interno (Napolitano e Minniti, per limitarci ai nomi più noti) e sottosegretari, ma hanno sempre privilegiato il rapporto con i vertici del Viminale o del ministero di Grazia e Giustizia al rapporto con la “base”, i poliziotti e i carabinieri che operano in strada. Per anni hanno preferito le stanze del Dipartimento della Pubblica sicurezza e i rapporti con gli altissimi papaveri che lo popolano. Mai si sono preoccupati di cosa accadeva nell’ampio corpo dei lavoratori della sicurezza pubblica.

Salvatore Margherito arrossirebbe di fronte alle immagini dei pestaggi nel carcere di Santa Maria. Negli anni Settanta del secolo passato aveva poco più di vent’anni quando da capitano del Reparto celere di Padova denunciò abusi e violenze. Lo arrestarono, processarono, lo sospesero dal servizio (negli anni venne reintegrato e fece la sua carriera fino a diventare Questore di Modena), ma la sua vicenda spianò la strada alla smilitarizzazione della polizia e alla legge di riforma.

Nacque il Siulp (il primo vero sindacato di polizia), il giornalista Franco Fedeli fondò la rivista “Polizia e democrazia”. Le finestre vennero spalancate e anche nelle questure “scelbiane” entrò aria nuova. Un patrimonio (uno dei tanti) di sacrifici, elaborazioni, buttato nel cestino. Un tentativo di connettere i lavoratori della sicurezza pubblica al resto della società e di tenerli ancorati ai valori della Costituzione, miseramente fallito nei decenni successivi.

Desta sincero stupore un comunicato della Funzione pubblica Cgil sui fatti di Santa Maria. Non c’è traccia di indignazione per quelle immagini, non c’è allarme per la trasformazione di operatori penitenziari in aguzzini, nessuno si chiede come e perché siano potuti accadere fatti del genere. Nel comunicato, però, c’è la denuncia contro la «gogna mediatica». Ma quale gogna mediatica? La grande stampa e le tv nazionali sono arrivati molto in ritardo, hanno raccontato poco “la mattanza” di Santa Maria. E questo è un fatto che dovrebbe allarmare tutti.

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