In tempi di magra, con i soldi contati nelle casse pubbliche, le uniche soluzioni sono le promesse a costo zero. O comunque con una spesa che si farà sentire solo in un futuro indefinito. Niente abolizione dell’Ici di berlusconiana memoria.

Allora via libera a lunghe sessioni sul premierato per Fratelli d’Italia, autonomia differenziata per la Lega, separazione delle carriere per l’intera maggioranza e chi più ne ha più ne metta, all’insegna del “più riforme per tutti”, lo slogan preferito dalla destra al governo in questa campagna elettorale per le europee.

Del resto, un giorno sì e l’altro pure, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ricorda che gli spazi di bilancio sono ristretti. Quasi inesistenti. Diventa difficile fare delle promesse credibili, addirittura il bonus tredicesime per i più poveri è diventato una mancetta per pochi fortunati.

Ecco che dal cilindro bisogna per forza pescare le care riforme, buone per tutte le stagioni perché con ognuna si può parlare al proprio elettorato. Sarà un caso che proprio oggi alla Camera è stata incardinata la legge costituzionale su Roma capitale, pensata per rafforzare i poteri della città equiparandola a una regione. Si tratta di uno step iniziale, un passaggio preliminare in commissione Affari costituzionali.

Bandiera romana

Resta il fatto che pure Forza Italia ha ora una bandierina da sventolare in vista del voto di giugno. La riforma è un pallino di Paolo Barelli, capogruppo di FI a Montecitorio, che ha firmato uno dei testi, insieme a un altro di Roberto Morassut (Pd). Nei mesi scorsi, il fedelissimo di Antonio Tajani si è speso più di tutti, affinché il provvedimento potesse iniziare l’iter alla Camera, sfilando di fatto la paternità della riforma a Fratelli d’Italia.

I meloniani, con il vicepresidente dell’aula di Montecitorio, Fabio Rampelli, avevano spinto sulla riforma nella scorsa legislatura. Il clima è cambiato, sono i berlusconiani che vogliono blandire l’elettorato della capitale. Perché vanta un certo peso nella circoscrizione Centro delle europee. E poco male se l’eventuale approvazione della proposta di legge avverrà in un futuro indefinito. Conta l’intenzione, la rivendicazione di uno strapuntino. L’approccio è stato del resto mutuato dalla riforma della Costituzione, l’istituzione del premierato che dovrebbe cambiare i connotati della Repubblica. «La madre di tutte le riforme», secondo la definizione della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

FdI spinge per il primo via libera entro le elezioni europee. Ma se proprio non dovesse arrivare pazienza. L’importante è aver dato un segnale agli elettori. E non cambia il canovaccio con l’autonomia differenziata, che tra tutte le riforme è quella che più fa piacere della Lega: serve solo il via libera dell’aula della Camera. Ma, calendario alla mano, la votazione arriverà a elezioni archiviate, quando i partiti saranno alle prese con i conti sulle percentuali perse o guadagnate. Intanto nei comizi, tra una critica all’Europa e una carezza alle battaglie di Roberto Vannacci, Matteo Salvini può esultare per l’autonomia. Che ancora non c’è.

Come sigillo ideale, ecco l’ultima che va bene un po’ a tutti i partiti della maggioranza, dal FdI a FI passando per i leghisti: la riforma della Giustizia. «La porteremo a breve in Consiglio dei ministri», ha garantito Meloni. Tajani, interpellato alla Camera, ha confermato con un meno perentorio: «Penso di sì».

Soldi in mare

E mentre per i cittadini ci si ferma alle promesse di riforme, il governo riesce a trovare un po’ di risorse, vere, per accontentare un suo ministro.

Nel decreto Agricoltura, riveduto e corretto dopo lo stop imposto dal Quirinale, è spuntato lo stanziamento, di quasi 5 milioni di euro, per il biennio 2024-2025, per l’istituzione del dipartimento per le Politiche del mare a Palazzo Chigi. Un milione e 700mila viene attinto dal bilancio della Presidenza del Consiglio, e sono sempre risorse pubbliche.

E non solo: oltre un milione e 200mila euro viene prelevato dal fondo per le esigenze indifferibili, quindi considerate prioritarie, spesso usato per coprire le spese delle misure inserite nella legge di Bilancio. Un dato politico è significativo: Meloni ha imposto emendamenti a costo zero ai parlamentari durante l’ultima manovra, salvo poi tirare fuori quei soldi, a distanza di qualche mese, per consentire l’apertura di una serie di uffici utili al suo fedelissimo, Nello Musumeci, attuale ministro delle Politiche del mare. Per fare cosa? Si vedrà. Il perimetro di azione sarà definito da un dpcm, da emanare entro un mese dall’entrata in vigore del decreto Agricoltura.

Intanto, i soldi sono stati portati a casa e l’ex presidente della regione Sicilia può gongolare, dopo qualche mugugno per un ruolo finora marginale nel governo. La misura è stata firmata dal ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, nell’ambito di un altro decreto omnibus, in cui fanno capolino disparati interventi, come quello sull’ex Ilva.

I milioni di euro (3 all’anno dal 2025) serviranno a fare un po’ di assunzioni e potenziare il dipartimento di Musumeci. Arriveranno, quindi, in dote «due uffici dirigenziali di livello generale e quattro uffici di livello dirigenziale non generale», si legge nel testo del decreto. A chiudere il cerchio ci sono le disponibilità economiche per una schiera di consulenze esterne, da 50mila euro all’anno a persona.

Con l’unico tetto fissato a 350mila euro per questo capitolo. A conti fatti Musumeci potrà convocare al suo fianco fino a sette esperti, esclusivamente su base fiduciaria. E i cittadini, invece? Che mangino riforme.

© Riproduzione riservata