Più o meno nelle stesse ore in cui il premier “legittimato dal voto popolare” è stato costretto a dimettersi in Gran Bretagna per il dissenso sempre più incalzante venuto allo scoperto dall’interno del suo stesso partito, quello italiano “calato dall’alto” è sopravvissuto al passo avanti, indietro, infine di lato del Movimento 5 stelle. Potrebbero sembrare due storie completamente diverse e invece hanno anche un tratto in comune che le rendeva prevedibili entrambe.

I parlamentari conservatori hanno bisogno di un po’ di tempo per far dimenticare Boris Johnson. Secondo lo stesso canone usato sul finire del 1990 nei confronti di Margaret Thatcher, allora crollata nei sondaggi, hanno deciso di sostituire il leader ormai dannoso per il partito (quindi per la loro rielezione) con uno che provi a rendersi accettabile entro un anno e mezzo, quando si tornerà a votare. Guerra, Covid, Brexit e imminenti riforme fiscali non hanno impedito la discontinuità.

Il governo di Mario Draghi, al contrario, dal momento in cui ha ricevuto la fiducia, è diventato inamovibile, perché una sua crisi avrebbe causato e causerebbe l’interruzione anticipata della legislatura. D’altro canto, da noi le urne sono ormai dietro l’angolo. Quindi, per prepararsi a questo appuntamento, i partiti hanno tutti bisogno di rendere evidenti le posizioni che li caratterizzano, nei confronti dei competitori e rispetto al governo uscente.

Le mosse di Conte

Non a caso, i due partiti messi meglio, con una minore ansia di definire attraverso scossoni cosa propongono, sono il Pd e Fratelli d’Italia. Il primo si è pienamente identificato con il governo Draghi, al punto da far presumere che il suo vero obiettivo sia non vincere le prossime elezioni per clonarlo anche nella prossima legislatura.

Il secondo si predispone da tempo a rappresentare una alternativa politica ai governi a guida tecnica, con baricentro Pd, benedetti dal Quirinale. I due partiti meno pronti sono i principali vincitori del 2018, cresciuti allora esponenzialmente come avanguardia del popolo oppresso contro le élite, allora entrambi buoni amici di Vladimir Putin, finiti a fare da sostegno a un governo atlantista guidato dall’ex presidente della Banca centrale europea.

Giuseppe Conte, da allora a oggi, ha giocato diverse parti, ha accompagnato la maturazione istituzionale dei grillini, e avrebbe potuto giocare un ruolo ancora diverso anche ora, se solo avesse avuto il coraggio di investire la popolarità conquistata da palazzo Chigi in un altro soggetto politico, lasciando a Luigi Di Maio il Movimento.

Avrebbe forse potuto portare un valore aggiunto effettivo al “campo largo” capitalizzando sulla simpatia personale di cui ancora gode da parte di chi ha considerato rassicurante la sua gestione della crisi sanitaria nella fase più dura. Da leader dei Cinque stelle, la sua popolarità personale non sembra spostare voti. Da leader dei Cinque stelle, per forza di cose, per la pressione che viene dai parlamentari rimasti fedeli, per le aspettative del pubblico a cui parla, deve aderire alla paradossale inversione dei ruoli con Di Maio. Lui (Conte) a capo del partito fondato da Beppe Grillo, l’altro (Di Maio), battitore libero.

I nove punti del M5s

Da qui i nove punti della lettera al «signor presidente del Consiglio dei ministri» e il discorso ai gruppi parlamentari trasmesso in diretta sui social a vantaggio dei militanti. Prima che condizioni per Draghi sono i titoli del programma e l’avvio della lunga campagna elettorale entrata ufficialmente nel vivo. Dal Conte battitore libero ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa di più e di diverso.

Nei nove punti non ci sono ovviamente le roboanti affermazioni anticasta del 2018, sostituite dal lessico formale da avvocato civilista, ma nel merito c’è poco di nuovo. Innanzitutto, se non quasi soltanto, redistribuzione, redistribuzione, redistribuzione, attraverso trasferimenti pubblici, nuove regole per il mercato del lavoro e bonus fiscali.

Quindi, naturalmente, il primo avviso è “il reddito di cittadinanza non si tocca”. Il secondo: va approvato il progetto Cinque stelle sul salario minimo. E poi: vincoli che spingano le imprese alla stipula di contratti a tempo indeterminato; più risorse per i bonus a compensazione dei rincari in campo energetico, insieme a interventi regolativi per limitarli; taglio del cuneo fiscale; mantenimento del superbonus 110 per cento per le ristrutturazioni; accredito immediato delle detrazioni fiscali (cashback). L’unica misura che non si muove sulla linea della “redistribuzione” chiede «massicci interventi per le rinnovabili». Quindi hanno tutte lo stesso segno: implicano maggiori spese. Il pranzo (gratis) è servito.

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