Progetti per la sicurezza stradale in ritardo, interventi contro il dissesto idrogeologico rinviati, riqualificazioni delle città e delle periferie in sospeso. E questi sono solo alcuni esempi, che fissano una certezza: se il Pnrr era stato pensato per l’Italia come una piccola grande rivoluzione, sociale, economica e ambientale, allora si può già decretare il sostanziale fallimento. Se andrà in porto, si vedrà fino al 2026. Ma sarà un’operazione di manutenzione tecnica dell’ordinario o poco più, i cambiamenti radicali sono una bandiera ammainata. La terza rata è arrivata, a ottobre, in forte ritardo. Per la quarta bisognerà attendere qualche altro mese, quasi sicuramente l’inizio 2024 per incassarla. Dall’inner circle del ministro del Pnrr, Raffaele Fitto, si fa professione di ottimismo: «La trattativa con l’Unione europea procede proficuamente, il confronto è positivo». Nessuno si sbilancia sulla tempistica. Una piccola speranza è affidata alla spinta sul Repower Eu per qualche investimento green.

Gli ultimi dati, riportati dall’associazione Openpolis, annotano che all’appello mancavano ancora 11 scadenze previste per il primo semestre del 2023. Bruxelles deve valutare voce per voce lo stato di attuazione prima di far partire il bonifico della quarta rata. Muoversi nel groviglio di definanziamenti, rimodulazioni e conferme è un’operazione complicata. La stima, fatta da Openpolis, è di un taglio complessivo di 42mila progetti, piccoli o grandi, inizialmente inseriti tra quelli finanziati dal Piano.

Piano di tagli

L’impatto territoriale si muove su due livelli. Le conseguenze maggiori riguardano le metropoli, sottolinea ancora Openpolis. Roma avrebbe perso almeno 229,5 milioni di euro, Milano 168,7 milioni e Genova 146,6 milioni. Sono stime, per qualcuno addirittura al ribasso. Di sicuro solo per la quinta rata la cabina di regia di Palazzo Chigi ha ridotto gli obiettivi da 69 a 51. Sono numeri in apparenza aridi e astratti, ma significano meno interventi contro il dissesto idrogeologico, tema tornato di attualità dopo il maltempo che ha flagellato la Toscana, riduzione dei lavori per la riqualificazione urbana, con cantieri per lo sviluppo di centri sportivi e poli culturali, e calo investimenti per il rilancio delle periferie.

Il mantra del governo non cambia: saranno indicati canali di finanziamenti alternativi, attingendo da altri capitoli di spesa. Nella manovra non c’è traccia di questa operazione. Ancora oggi non viene specificato da dove verranno reperite le risorse. Al centro-nord, infatti, non si possono usare i fondi di coesione, che devono andare per l’80 per cento al Mezzogiorno, già pesantemente colpito dai definanziamenti nel Pnrr. La coperta è corta.

Poca sicurezza

C’è un altro capitolo che denota i ritardi su più livelli: l’attuazione del Piano nazionale complementare (Pnc), che mette a disposizione altri 30 miliardi di euro collegati al Pnrr. L’ultimo report della Ragioneria dello stato evidenzia un rallentamento. «Rispetto alla situazione registrata nei trimestri precedenti, un maggiore ritardo nel rispetto delle scadenze. Il 39 per cento degli obiettivi del secondo trimestre 2023, infatti, risulta non conseguito», si legge nel documento. Tra questi spiccano i lavori per la sicurezza stradale, in particolare l’adeguamento di ponte e viadotti, che hanno una dotazione di 640 milioni di euro. Il ministero delle Infrastrutture di Matteo Salvini non ha centrato l’obiettivo, almeno fino al termine del primo semestre 2023, così come non ha attivato la strategia per lo sviluppo delle aree interne.
Il ministro Fitto deve barcamenarsi su vari fronti, facendo i conti con le scadenze che vanno oltre i limiti fissati e con le pressanti richieste di Bruxelles. Fino a qualche mese fa, però, Palazzo Chigi poteva addebitare le responsabilità «agli altri», a quelli che c’erano prima, come nella consolidata tradizione meloniana. La revisione è stata pensata e attuata da questo governo, tagliando qua e là obiettivi e quindi centinaia di progetti.

Tra i capitoli in sospeso ci sono i lavori sulla distribuzione dell’acqua per migliorare lo stato delle condutture, l’efficientamento energetico dei musei e più in generale dei centri culturali, così come i contratti per la costruzione di istituti scolastici. E ancora: sulla sanità c’è stata una contrazione dell’offerta. Le case di comunità (centri polivalenti per garantire servizi di prima assistenza) finanziate con il Pnrr sono scese da 1.350 a 936, gli ospedali di comunità sono calati da 400 a poco più di 300. I ritardi hanno una ragione politica. «Il governo ha perso molto tempo per il cambiamento della governance, spostando le competenze dal ministero dell’Economia a Palazzo Chigi. Questo ha richiesto molti mesi, di fatto sono partiti in estate, tra giugno e luglio», spiega a Domani il senatore del Pd, Alessandro Alfieri, che ha la delega per seguire l’attuazione del Recovery plan. «I rallentamenti – aggiunge – hanno riguardato anche le riforme, come quella della giustizia e soprattutto sulla concorrenza. Basti pensare alla vicenda dei balneari».

Poca trasparenza

Nemmeno la trasparenza è un fiore all’occhiello del Pnrr. Sembra un argomento minore, ma non lo è. Le amministrazioni locali sono state escluse dalle decisioni assunte a Palazzo Chigi, e infatti hanno subito taglio plurimiliardari, da Fitto che ha accentrato tutte le operazioni in asse con la premier Meloni. «C’è un rilascio dei dati sul sito Italia domani, la situazione è appena lievemente migliorata. Ma non c’è stata alcuna intenzione di ascoltare la società civile sul capitolo delle riforme», dice Federico Anghelè, direttore di The good lobby che si batte per una maggiore efficienza dei meccanismi decisionali. «La convocazione nella cabina di regia spetterebbe di diritto, ma il ministro Fitto non ha dato seguito alle richieste», aggiunge Anghelè, in riferimento a una norma inserita nel terzo decreto sulla governance del Pnrr.

E dire che il Piano, dietro la sua sigla algida e quasi criptica, era immaginato come un piccolo Eden tricolore. Prometteva asili nido, una maggiore inclusione sociale, una sanità vicina ai cittadini, la riduzione del divario territoriale e del gap di genere, più alloggi per gli studenti universitari. Forse era troppo, certo. Adesso si rasenta il troppo poco.

© Riproduzione riservata