A un mese esatto dal voto referendario, la famosa «analisi del voto» – o, a seconda dei gusti, la famigerata «analisi della sconfitta» – nel Pd non è mai arrivata. E allora un gruppo di esponenti dell’area riformista, ma anche liberali di altri partiti e senza partito, hanno deciso di farla in proprio. L’appuntamento è il 10 luglio, a Milano, al centro Slow Mill. A convocarlo è il circolo «di cultura politica» Matteotti, luogo trasversale di «persone di buona volontà che vogliono un’Italia libera e forte in un’Europa libera e forte». L’evento si intitola “Dare valore al lavoro”. Relazione di Tommaso Nannicini, l’economista che ha sostenuto il no al quesito sul Jobs act, presenti e parlanti fra gli altri Maria Elena Boschi (Iv), Carlo Calenda (Azione), Giorgio Gori (Pd), Benedetto Della Vedova (+Europa), i sindacalisti Luca Stanzione, Fabio Nava ed Enrico Vizza (rispettivamente di Cgil, Cisl e Uil) e il presidente di Confindustria Lombardia, Giuseppe Pasini.

Lia Quartapelle, deputata Pd e fondatrice del Matteotti, spiega come nasce l’iniziativa: «Dopo il deludente esito del referendum, i problemi del mondo del lavoro in Italia sono ancora tutti aperti. Per proporre una convincente alternativa alla gestione di Giorgia Meloni e delle destre si deve partire da quello che il referendum non ha preso in considerazione, cioè dagli stipendi che sono troppo bassi, dalla scarsa qualità di molti impieghi e dal fatto che le nostre imprese producono in media poco valore aggiunto».

Quartapelle non ha votato il quesito del Jobs act ma assicura domani arriveranno alcune proposte «usando un metodo diverso da quello che ha portato alla sconfitta del referendum: ripartiamo dall’analisi della realtà del lavoro di oggi e domani, riprendiamo il filo dell’unità sindacale, il confronto con Confindustria e il dialogo tra le forze di opposizione».

La direzione si è persa

Intanto nel Pd la direzione si è persa: la data ancora non c’è, come quella dell’Assemblea nazionale. Circolavano le date del 20 e 21 luglio, ma ci sono state smentite. È possibile che il confronto nel “parlamentino” Pd si tenga entro fine luglio o i primi di agosto. L’assemblea seguirà. Pazienza se nello statuto, all’art. 7, viene stabilito che è «convocata ordinariamente dal suo presidente almeno una volta ogni sei mesi». Al Nazareno questa frase viene interpretata come un invito a tenere due convocazioni l’anno. Ma non necessariamente, visto che nel 2024 – viene ricordato – l’Assemblea è stata convocata una sola volta, a dicembre.

Al di là delle questioni statutarie, il punto politico è la rarefazione del dibattito interno denunciata da qualche (raro) esponente della minoranza. L’ultima riunione di segreteria risale al bombardamento dell’Iran da parte di Israele, il 22 giugno: ma è stata poco più che una call sugli eventi. Quella precedente datava fine febbraio. Altri appuntamenti non c’erano. Pazienza se venerdì 13 giugno, all’ultima direzione convocata online sul bilancio del partito, la senatrice Simona Malpezzi ha chiesto la convocazione urgente di una riflessione politica a partire dai risultati referendari. Del resto la Cgil ha ragionato in un’assemblea generale il 17 e 18 giugno, e si è riconvocata per il 23 e 24 luglio. Il Pd invece, temendo le polemiche interne, ha archiviato tutto.

Accordi entro agosto

La verità è un altra. Ed è una questione ferragostana ma tutt’altro che balneare. Il Pd ha un complicato dossier in gran parte ancora aperto sulle alleanze per le regionali. E la segretaria vuole aspettare che tutti – o quasi tutti – gli accordi vadano in buca per annunciarli in direzione e costringere tutti i componenti ad approvare la sua relazione. Compreso il gruppetto di riformisti, capitanati da Pina Picierno e Giorgio Gori, che in quel voto promette di formalizzare una componente di minoranza più radicale e meno collaborativa rispetto a Energia popolare di Stefano Bonaccini. Una “minaccia” che, alla fine, ha per obiettivo polemico più il presidente del Pd e leader dei riformisti che la stessa Elly Schlein.

Sulle regionali, per la segretaria, la linea generale è quella delle coalizioni unitarie. Il capitolo Marche è l’unico già chiuso: l’eurodeputato dem Matteo Ricci è in campo da tempo da candidato presidente, e la coalizione è fatta, dentro M5s e fuori Azione. Ma in Puglia, Campania, Toscana la trattativa con gli alleati è ancora in corso. In Campania Schlein deve aspettare che Giuseppe Conte avanzi formalmente il nome di Roberto Fico per la corsa; l’accordo c’è, anche se il presidente uscente Vincenzo De Luca continua il suo fuoco di sbarramento.

Fatto questo, come contropartita il Pd chiederà a M5s di digerire i candidati dem di Puglia e Toscana: più facile in Puglia, dove c’è Antonio Decaro (ma l’europarlamentare chiede garanzie di non avere in Consiglio «due suocere», ovvero i suoi due predecessori Michele Emiliano e Nichi Vendola, che vogliono candidarsi). Più difficile il caso toscano: la ricandidatura dell’uscente Eugenio Giani è diventata una battaglia all’arma bianca. Con lui gran parte del Pd regionale, contro M5s e Avs, che chiedono una «discontinuità» che però piacerebbe anche alla segretaria, che su questo non ha ancora detto una parola definitiva. Quanto al Veneto, per il centrosinistra è una causa già persa: lì il Pd si limita a sfidare il presidente Luca Zaia a convocare la data del voto.

Ma «non c’è alcun ritardo» nel ruolino di marcia, spiegano al Nazareno: nelle Marche i tavoli sono andati più veloci «perché è la prima regione che va al voto», probabilmente il 21 settembre, «le altre voteranno fra ottobre e novembre, mancano quattro mesi». Gli accordi, viene assicurato, si chiuderanno entro agosto, come – viene ancora fatto notare – è successo nel 2024 per la precedente tornata di regionali d’autunno.

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