Il dolore non unisce, divide, a esaminare lo stato dei rapporti del fronte referendario a dieci giorni dal flop delle urne. Sul lato politico, dopo il corteo per Gaza, che serviva anche a dimostrare che i giallorossi avevano uno straccio di posizione comune sul campo minato della politica estera, ora tutto è tornato come prima: al corteo contro il riarmo di domani a Roma il Pd non ha aderito, M5s e Avs sì e fanno campagna contro «il partito dell’Europa militarizzata», di cui in qualche modo anche il Pd fa parte.

Anche i rapporti fra campo largo e Cgil dal 9 giugno sera si sono raffreddati. I partiti hanno fatto una campagna elettorale tutta volta alla ricerca dell’«avviso di sfratto» per Giorgia Meloni. Il sindacato invece ha spinto sui quesiti sperando di pescare voti trasversali nei luoghi di lavoro. Non è andata bene né agli uni né agli altri.

Martedì e mercoledì scorso l’assemblea Cgil si è riunita per due giorni di analisi del voto. Una discussione onesta, aggiornata a luglio, per ora finita con un documento approvato a stragrande maggioranza che prospetta continuità della nuova rete di alleanze sociali e del «reinsediamento» nel territorio. Nuova linfa anche per le battaglie contrattuali, a partire dallo sciopero di oggi dei metalmeccanici.

Per il sindacato sono tre le ragioni della sconfitta dei referendum: «L’astensionismo cronico, principale sintomo della crisi profonda della nostra democrazia», «un sistema di informazione che ha (...) silenziato la campagna referendaria»; infine «una politicizzazione dell’appuntamento referendario pro o contro l’esecutivo che ha, di fatto, contribuito a oscurare e mettere in secondo piano il contenuto dei quesiti», acuita dalla campagna astensionista della destra. Insomma per Maurizio Landini la sconfitta è anche colpa dei compagni di strada dei partiti.

Pd senza analisi

Dal lato della politica, qual è l’analisi della sconfitta? Non c’è. Qualche dichiarazione “a caldo” dei dem, di Giuseppe Conte e dei leader di Avs. Colpisce che nel Pd non sia stata neanche convocata una segreteria per un minimo di riflessione comune. Il che avrebbe dello straordinario, visto che sui quesiti la segretaria ha impegnato tutto il partito.

Ma no, viene spiegato, di straordinario non c’è proprio nulla: Elly Schlein non riunisce la segreteria dallo scorso febbraio. Tre mesi e mezzo senza confrontarsi, almeno in rito ufficiale e collettivo, con i 21 dell’esecutivo. Il che dimostra, e ormai non è più un retroscena, che la responsabilità del Pd è affidata a un direttorio informale di stretta fiducia della segretaria, i cui membri si contano sul palmo di una mano.

La segreteria sarà certamente convocata ad horas e entro fine mese dovrà essere riunita una direzione. Perché entro luglio va fatta l’Assemblea nazionale. Non perché qualcuno la reclami (neanche la minoranza), perché lo impone lo Statuto, art. 6 comma 7: «L’Assemblea è convocata ordinariamente dal suo Presidente almeno una volta ogni sei mesi».

L’ultima è di metà dicembre 2024. Di certo in tutte e tre le occasioni si parlerà di referendum. Ma a distanza di oltre un mese l’analisi della sconfitta suonerà come un lutto già elaborato, acqua passata. Il Pd di Schlein guarda avanti alle regionali d’autunno. Come se il partito della mobilitazione permanente maltolleri l’analisi del perché si è perso. Come una pratica da espletare, una liturgia della vecchia forma-partito.

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