La dem a Meloni: «In 14 milioni chiedono di cambiare una legge: ci rivediamo alle politiche». Il peso dei tanti “no” alla cittadinanza. Landini: sconfitti sul quorum, è in crisi la democrazia
Il quorum non arriva, l’asticella dell’affluenza faticosamente si ferma al 30,6 cento, e, se la sconfitta dei referendum è un fatto oggettivo – il quorum non è stato raggiunto, e non di poco – le forze del centrosinistra agitano subito il «peso» del voto. I circa 14 milioni andati alle urne nonostante la campagna astensionista della destra sono l’obiettivo che si era dato il campo largo formato stretto (Pd, M5s, Avs): superare i 12 milioni e trecentomila voti raccolti dalla destra alle ultime politiche.
Elly Schlein svolge questo ragionamento nel comunicato a lungo meditato dal Nazareno: «Hanno ben poco da festeggiare: per questi referendum hanno votato più elettori di quelli che hanno votato la destra mandando Meloni al governo nel 2022. Quando più gente di quella che ti ha votato ti chiede di cambiare una legge dovresti riflettere invece che deriderla». Ce l’ha con la destra, che all’unisono spernacchia i referendari. Ma anche parla a nuora perché suocera intenda.
La suocera sono i riformisti che da lunedì mattina hanno cominciato a sparare contro le scelte della segretaria: «Una sconfitta profonda, seria, evitabile», «un regalo enorme a Giorgia Meloni e alle destre», posta la vicepresidente del parlamento europeo, e suonano lo stesso spartito anche la collega Elisabetta Gualmini e il collega Giorgio Gori. Non il leader della minoranza Stefano Bonaccini.
Cgil, un nuovo inizio
Il segretario Cgil è il primo ad andare davanti ai cronisti (e farsi anche fare le domande), dall’ex sede del sindacato di via dei Frentani a Roma. Landini ammette la sconfitta senza girarci intorno: «Il nostro obiettivo era raggiungere il quorum, non lo abbiamo raggiunto. Oggi non è una giornata di vittoria». Parla della «crisi democratica evidente», ma anche lui alla fine vede il bicchiere mezzo pieno: i tanti milioni di persone sono «un numero importante, un numero di partenza. I problemi che abbiamo posto con i referendum rimangono sul tavolo».
I referendum sono stati «un investimento, un inizio di un lavoro che non può terminare». Ha in testa la trasformazione della Cgil in un «sindacato di strada». Vediamo cosa risponderà l’assemblea generale del 17 e 18 giugno. Ma va avanti, e «non pensa affatto» alle dimissioni: «Tutto questo lavoro che abbiamo realizzato in questi mesi credo che sia particolarmente significativo. Ripartiamo da 14 milioni».
Le strategie dei partiti e del sindacato sono molto meno distanti di quello che sembra. Schlein e Conte fino a quell’ora non si sono sentiti con Landini (sono le cinque del pomeriggio), quindi non hanno concordato una linea comune. È noto che a Landini non è piaciuta la «politicizzazione» del voto anti destra, che ha allontanato dal voto molta base operaia. Ma a Landini a sua volta è noto che il «campo largo formato stretto» nel voto tentava una prova di forza, e non poteva che chiamare i suoi contro Giorgia Meloni.
Occhio ai no
Certo, dalla valanga di sì vanno scorporati i no: al quesito sul Jobs act sono poco più dell’11 per cento, più o meno gli stessi del quesito sulle causali del contratto a termine, mentre ai quesiti sulle indennità e sugli infortuni sul lavoro più del 12 per cento ha detto no. Qualcosa, dunque, ha contato la campagna di Matteo Renzi.
Ma i no che pesano di più, che aiutano a crescere potremmo dire, sono quelli sul dimezzamento dei tempi per la cittadinanza. Il 35 per cento non è d’accordo, oltre 3 milioni e sei di persone, e sono tutta farina del sacco del centrosinistra e del sindacato. Landini ha abbracciato questo quesito con lealtà, sapendo che era dura, anche fra i suoi.
Giuseppe Conte ha dato libertà di voto ai suoi e poi annunciato – tardivamente e per decenza – che lui avrebbe votato Sì. In questi no ci sono i problemi di programma del prossimo centrosinistra. Sempreché Schlein e Conte non abbiano già deciso che l’alleanza è quella della piattaforma per Gaza (sempre Pd, M5s, Avs). Il leader pentastellato vorrebbe consolidare questa formula. Schlein frena, Renzi pensa a una lista centrista nazionale, senza Calenda.
Quanto al Pd, Schlein risponde subito picche alle critiche interne: «Andremo avanti a batterci per migliorare le condizioni materiali delle persone che questo governo ha completamente rimosso. Continueremo nell’impegno a fianco di quei milioni di elettori che sono andati a votare sperando di ridurre la precarietà e rendere l’Italia più giusta, ci motivano ancora di più nel costruire l’alternativa».
Ma a parlare chiaro alla minoranza interna è Igor Taruffi, il capo dell’organizzazione, su La7: nonostante il risultato, anzi proprio per il risultato, «la strada è giusta, certo serve un percorso, ma bisogna insistere», «Se stiamo a Pd, M5s e Avs, nella formula ristretta di campo largo alle europee la distanza dal centrodestra è di pochi punti percentuali», e sui dissensi interni «tutte le discussioni» sono «legittime», l’importante è che non prevalgano sugli interessi generali, quando i distinguo superano gli interessi generali allora c'è un problema».
Nessun ripensamento sulla scelta di lanciare tutto il partito nel voto: la posizione del Pd sui referendum è «in linea con quanto si aspettava la parte del popolo che vogliamo rappresentare».
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