«Il grande Fermo e i piccoli andirivieni»: per il centrosinistra le regionali del marzo 2023 sono lontane ma hanno già assunto i toni surreali di un monologo di Alessandro Bergonzoni. C’è chi si agita, c’è chi sta immobile, ovunque piovono nomi. E quindi non si riesce a partire. Quelle del Lazio e della Lombardia saranno elezioni cruciali per l’esito delle prossime politiche: si terranno in contemporanea o quasi e già solo per la scelta dei candidati – chi va a fare cosa – peseranno sugli equilibri nazionali. Ma in entrambi i casi per ora la coalizione procede tentoni. Nella prima regione la corsa è a tre, per ora; nella seconda c’è una folla di pretendenti e tutto resta congelato fino all’autunno.

La scelta dei sindaci

LaPresse

Nel Lazio tutto si muove. Mercoledì 8 giugno a Roma, in un’assemblea di sindaci locali, arriverà una nuova candidatura alle primarie per le regionali. Daniele Leodori, il vicepresidente della regione, è il secondo uomo a lanciarsi, e all’apparenza è meno mediatico del primo, ovvero l’assessore alla sanità laziale Alessio D’Amato. D’Amato è del 1968, è un politico di lungo corso ma deve il suo exploit ai successi nella lotta alla pandemia. Il 20 maggio un sondaggio dell’istituto Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, arrivato con formidabile tempismo, lo ha dato in vantaggio rispetto al collega. D’Amato ha un profilo che suggestiona il Nazareno: è iscritto al Pd ma è fuori dai giochi correntizi, ha una lontana provenienza da Rifondazione ma piace a Carlo Calenda.

I meglio informati però sanno che da mercoledì anche il Nazareno dovrà cominciare a fare i conti con realtà.

Quello di Leodori è, in sostanza, il passo avanti di un favorito: classe 1969, è anche il potente assessore al bilancio; è poco conosciuto ma sottotraccia costruisce la sua immagine pubblica di uomo di polso. Appartiene alla famiglia popolare ed ex dc di Dario Franceschini, che in regione ha il più solido tesoretto di voti. Essenziale: qui per vincere, il centrosinistra deve bilanciare il voto progressista della Capitale con la valanga di destra delle province. La sua è l’area politica che dialoga con i moderati a cavallo fra gli schieramenti; caratteristica utile in una competizione in cui la guida del centrodestra spetterà agli ex camerati di Fratelli d’Italia.

Mercoledì Leodori riceverà l’appello di 120 fra sindaci e amministratori: «Facciamo crescere la nostra regione». Lui parlerà rivendicherà i successi del Lazio di Nicola Zingaretti, elencando quello che resta da fare. Innanzitutto, serve ripristinare la collaborazione con la città di Roma, segnata da cinque anni di scontri fra Zingaretti e Raggi. Un lavoro già iniziato dall’avvento di Roberto Gualtieri al Campidoglio (forse con qualche intoppo, leggasi inceneritore) ma a cui Leodori si dedica con cura: casualmente nella diretta tv della Festa del 2 giugno le telecamere Rai hanno intercettato un fitto scambio proprio fra lui e il sindaco della Capitale. Pesano sulla sua corsa anche gli equilibri interni: difficile immaginare la corrente ex dc possa aggiudicarsi il candidato mantenendo la segreteria regionale Pd.

Comunque alla fine della kermesse mercoledì Leodori farà l’annuncio: «Se ci saranno le primarie io ci sarò». E alle primarie la sua vittoria viene data per scontata, anche se dovesse esserci un candidato – o una candidata – Cinque stelle. I gazebo di coalizione del resto sono un passaggio obbligato per stringere un’alleanza indispensabile a giocare la partita. Sono stati già decisi in Sicilia, che va al voto ad ottobre, e presto lo saranno anche in Lombardia.

A meno che sul tavolo regionale non dovesse piombare una briscola. E, neanche a dirlo, la briscola già si intravede. Nello scorso week end di ponte si è tenuto un incontro carbonaro fra esponenti di diverse aree, dem e no, per ragionare sulla possibilità di lanciare «il grande Gasby»: Enrico Gasbarra, un classico del prepartita di queste zone. Ma proprio perché è un classico, la cautela è obbligatoria. Gasbarra è da sempre candidato a tutto grazie alle molte preferenze prese in tutte le competizioni a cui ha partecipato in passato. Lui oggi fa altro: guida la «Funzione Security, Compliance & Risk Management» della Tim Sparkle, controllata di Tim. Ma nella sua vita da politico è stato presidente del Municipio 1, vicesindaco di Veltroni, presidente della provincia, deputato e eurodeputato. È un ex dc ma è stato anche amico di Marco Pannella: e soprattutto è amico di Goffredo Bettini e della sinistra dello schieramento, e cioè di Massimiliano Smeriglio. Gasbarra è vicino a Zingaretti. Anche se va detto che l’appoggio del presidente uscente è per molti un mistero di Fatima.

L’entusiasmo dei suoi fautori ora dovrà misurarsi con lo scetticismo del Movimento Cinque stelle. Per non dire di qualche perplessità interna: «Il nome di Gasbarra circola, ed è un buon nome», spiega un consigliere regionale sotto promessa di anonimato, «ma in dieci anni in Regione non si è visto neanche una volta. Il lavoro fatto da Nicola è straordinario e va continuato. Per questo ci vuole qualcuno che conosce bene la macchina. Meglio le primarie. E vinca il migliore». Risultato finale: tutto resta in alto mare.

Lombardia e Sicilia

In Lombardia invece i candidati abbondano. Il segretario regionale Pd Vinicio Peluffo da mesi tiene aperto un tavolo con tutte le opposizioni alla destra, grillini compresi. «E perché non dovremmo fare come in Sicilia?», si chiede Lia Quartapelle, deputata e big della politica milanese.

Ma per ora siamo ai veti reciproci. Matteo Renzi ha bocciato l’economista cremonese Carlo Cottarelli, e ha lanciato il sindaco di Milano Beppe Sala. Sala ci pensa ma ha in gestazione una sua “cosa nazionale”. Il suo nome non suscita l’entusiasmo del Nazareno: troppi protagonismi, qualche dichiarazione intempestiva, un’iscrizione ai verdi annunciata e poi finita nella nebbia. Smentita la corsa di Irene Tinagli, vicesegretaria Pd. Ci pensano Emilio Del Bono, sindaco di Brescia, Stefania Bonaldi di Crema e Mattia Palazzi di Mantova. Cercasi kamikaze: dall’altra parte è quasi certa la nuova corsa del presidente Attilio Fontana.

La scorsa settimana il ministro Lorenzo Guerini, ex sindaco di Lodi e pezzo pregiato della dirigenza lombarda, ha fatto un discorso di metodo: «Si parte dalla costruzione dell’alleanza, del programma elettorale, e poi si arriva al candidato». Un assist per il segretario Letta che ha stoppato tutti: «Dopo l’estate sceglieremo il candidato».

Quasi pacifiche invece le regionali siciliane, che del resto sono le più vicine (si celebreranno a metà ottobre). Una certezza c’è, anche se manca l’ufficialità: le primarie di coalizione fra centrosinistra e M5S si svolgeranno con il 23 luglio. Venerdì scorso Giuseppe Conte ha fatto capire che il disco verde c’è stato: «Per noi sarebbe un esperimento nuovo, ci stiamo lavorando». Per la parte grillina circola il nome del sottosegretario Giancarlo Cancelleri (che però avrebbe bisogno di una deroga, ha esaurito i due mandati consentiti dallo statuto), del deputato regionale Luigi Sunseri, e quello di Lucia Azzolina, “indimenticabile” – per i precari della scuola – ministra dell’Istruzione del Conte 2.

Per parte centrosinistra lo spareggio è fra l’eurodeputata Caterina Chinnici, figlia di Rocco, magistrato ucciso dalla mafia, e Pietro Bartolo, europarlamentare anche lui, “mitico” dottore dei migranti di Lampedusa, stravotato nel turno di Bruxelles. Sfumata l’idea di saltare le primarie e convergere su Peppe Provenzano. Lo stesso Conte ha ammesso di fronte ai vertici del Nazareno che i suoi l’avrebbero fatto a fette: dire sì al suo ex ministro del Sud, che però è anche vicesegretario Pd, ovvero numero due di Letta, sarebbe stato un regalo agli avversari interni dell’avvocato. L’accusa di ridurre il movimento ad «ancella del Pd» sarebbe stata mortale.

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