Dopo l’ultimo sì del senato alla riforma della magistratura, la segretaria dem: «L’obiettivo è indebolire l’indipendenza della magistratura e permettere a chi comanda di scegliersi i propri giudici». Sul Ponte di Messina: «Si fermino». Pd e M5s, conferenze separate
Dietro le spalle le campeggia il cartello che Pd, M5s e Avs hanno esposto nell’aula del Senato al momento del sì finale della riforma della magistratura. Dice «No ai pieni poteri» e già dà l’idea della campagna referendaria. Elly Schlein, fra i presidenti dei gruppi Francesco Boccia e Chiara Braga, inizia a snocciolare le ragioni del No: è «una falsa riforma che non tocca i nodi veri della giustizia, come la durata dei processi o il sovraffollamento carcerario. L’obiettivo è indebolire l’indipendenza della magistratura e permettere a chi comanda di scegliersi i propri giudici». Il Pd ha convocato una conferenza stampa al Senato per dire che se non siamo un golpe, poco ci manca: «La democrazia non è un assegno in bianco per cinque anni a chi ha preso un voto in più alle elezioni, ma un principio secondo cui a ogni potere va posto un limite in un equilibrio di pesi e contrappesi previsti dalla Costituzione a tutela dei cittadini che non hanno potere né i soldi o l’arroganza di criticare giudici per decisioni che non condividono».
Dunque conferma le contestatissime frasi pronunciate ad Amsterdam, quelle sulla «libertà e la democrazia a rischio quando l’estrema destra è al governo». Perché, ragiona, il commento della premier contro i magistrati contabili dopo il no della Corte dei Conti al Ponte sullo Stretto di Messina («ennesimo atto di invasione sulle scelte di governo e Parlamento») «mi dà sostegno e ragione. E spero di leggere qualche editoriale sulla gravità delle parole della Meloni». Schlein lamenta il doppio standard dei media, su di lei e Meloni: «Delegittimare la Corte dei conti significa disconoscere il principio che la legge è uguale per tutti, a maggior ragione per coloro che gestiscono il potere, perché la Corte è lì per verificare che si amministrino correttamente i soldi dei cittadini italiani», «Ora ci aspettiamo che accanto alle nostre voci si alzino anche quelle di tanti altri a difesa della separazione dei poteri». Si appella invece al governo sul Ponte: «Si fermino».
A destra feste separate
La destra festeggia separatamente il sì alla riforma. Dopo l’aula, i senatori sciamano da Palazzo Madama, ma infilano due uscite diverse. Forza Italia ha convocato un drappello di giovani azzurri a piazza Navona, a fare da sfondo alle interviste dei big (Maurizio Gasparri, Paolo Barelli, Francesco Paolo Sisto). I ragazzi non scandiscono slogan, non hanno neanche portato la musica, e finiscono per farsi foto ricordo sotto il manifesto con la foto di Silvio Berlusconi. Fratelli d’Italia improvvisa un flash mob nella adiacente piazza di San Luigi dei Francesi. La Lega marca visita. La verità è che non festeggia: Matteo Salvini è furibondo per il no della Corte dei conti al “suo” ponte e non pensa ad altro. E la riforma della magistratura è quella che voleva Fi, mentre invece l’autonomia differenziata, quella che la Lega aveva preteso nell’accordo di governo, è stata bocciata dalla Corte costituzionale. Ai senatori leghisti non resta che prendere il trolley e tornare al Nord.
A onor del vero però anche le opposizioni organizzano conferenze stampa separate. Giuseppe Conte chiama i cronisti a San Luigi dei Francesi subito dopo che Fdi ha lasciato libera la piazza. Si presenta con i magistrati di riferimento del M5s: Cafiero De Raho, ex Procuratore nazionale antimafia oggi deputato, e Roberto Scarpinato, ex procuratore capo ed ora senatore.
Schlein poco dopo invece parla dall’aula convegni del piano terra. «Non abbiamo ancora coordinato le iniziative, ma presto lo faremo», dice. Ma l’ex ministro Stefano Patuanelli, intercettato dai cronisti nei corridoi mentre si allontana con Conte, ammette che un primo tentativo di coordinamento non è andato in buca. «Ieri (mercoledì, ndr) per ore ha ballato un comunicato congiunto. Ma poi abbiamo appreso della loro conferenza stampa». In realtà la conferenza stampa Pd era convocata da giorni, ma appunto, come appuntamento di partito.
A sinistra, per ora, c’è no e no. M5s attacca la riforma «che voleva Licio Gelli», i dem puntano «a stare sul merito» del testo approvato. C’è tempo per alzare i toni. Schlein aspettano la premier al varco: è convinta che finirà per chiamare un referendum su di sé. Il Nazareno ricorda il voto sulla riforma Renzi-Boschi del 2016 e spera la personalizzazione sia di nuovo una trappola: «Meloni ha detto che non vuole politicizzare il referendum. Però ieri ha detto che la riforma della giustizia e quella della Corte dei Conti sono la risposta alla decisione della Corte», dunque «è lei quella che vuole politicizzare».
Campo stretto
La battaglia referendaria non sarà semplice. Primo, perché si tratta di mobilitare il proprio elettorato per non consegnare alla destra i «pieni poteri». Secondo, perché al momento le forze in campo non sono molto ampie: il campo largo è ridotto al nucleo Pd-M5s-Avs. Gli alleati centristi si chiamano fuori. Non solo Azione, che in aula ha votato sì. Il fatto è che Italia viva si è astenuta. E Matteo Renzi ha scandito la sua equidistanza dagli schieramenti: «Sbaglia la destra a parlare di riforma epocale e sbaglia la sinistra a dire “aiuto arrivano i pieni poteri”. Non arrivano né l’una né l’altro. Questa riforma non è drammatica, è l’ennesima arma di distrazione di massa».
Terzo: il Pd potrebbe scoprire di avere anche un problema di compattezza interna. Per il momento Schlein nega con forza: «Il Pd è stato compattamente, in tutti i passaggi, in commissione e in aula al Senato e alla Camera, contro questa riforma. La linea del Pd è questa, è compatta e ci impegnerà nella direzione del referendum». Vero. Infatti l’elenco dei garantisti dem che hanno messo a verbale il loro sì alla riforma è breve, almeno per ora: Goffredo Bettini, Vincenzo De Luca, e l’area di LibertaEguale, quella di Stefano Ceccanti, Enrico Morando, Giorgio Tonini e Claudia Mancina. Il punto è che per mobilitare tutto l’elettorato bisognerà mobilitare anche l’ala riformista e garantista del gruppo dirigente. Sul tema, per ora, resta tiepida.
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