Dopo il monologo edificante sulla Costituzione, il momento omoerotico a Sanremo e le putinate di Berlusconi, la lista delle obbligate banalità prevede la contrita riflessione sull’astensione.

Dopo le elezioni in Lombardia e Lazio quasi tutti i commentatori ci presentano preoccupati una versione aggravata delle scenario desolante che ci avevano presentato all’ultima tornata – che a sua volta era un peggioramento di quella precedente – assicurandoci che quel 60 per cento di elettori che è rimasto a casa non è da leggersi come fatto contingente, ma come problema strutturale, dramma inesorabile, una «malattia della democrazia», come ha detto Giuseppe Conte, senza lasciarsi sfiorare dal pensiero che lui e il suo partito possano avere qualche responsabilità sul peggioramento del quadro clinico.

Stefano Cappellini su Repubblica avverte che un’analisi che non parta da questo dato è «sbagliata e colpevole», dunque per essere giusti e innocenti chiariamo: l’astensione è brutta, molto brutta. È un segno di stanchezza e disillusione che non può che affliggere chi ha a cuore lo stato di salute della democrazia.

Il problema è presentarlo come un fenomeno irreversibile e fatale, un’apocalisse che incombe, una sciagura inevitabile, al pari della vecchiaia, dei cambiamenti climatici, dello spegnimento del Sole, dei congressi del Pd, cose di fronte alle quali si possono soltanto levare gli occhi al cielo.

Nostalgia 

La concezione regressista della partecipazione elettorale rivela un cedimento, forse inconsapevole, alla nostalgia, sentimento politico che è l’anticamera della paranoia.

Si stava meglio quando tutti andavano a votare, quando si andava in sezione o all’oratorio e si faceva l’amore nei fienili. Chi ci ha rubato quell’età dell’oro fatta di buone letture e affluenza?

In quei magici decenni partecipativi l’aspettativa di vita era di 6 o 7 anni inferiore a quella di oggi, il tasso di omicidi sei volte più alto, quello d’istruzione molto più basso, ma vuoi mettere la soddisfazione di vedere la gente in fila ai seggi per ore?

Va bene problematizzare il dato, tentare di coglierne i profondi messaggi sociologici sottesi, ma come tutti i fenomeni sociali anche quello dell’astensione cessa di essere interessante quando viene proclamato come strutturale e irreversibile. 

Il politologo Roberto D’Alimonte, felice eccezione, ha presentato invece sul Sole 24 Ore la versione realista della questione, ricordando che il picco negativo di affluenza alle regionali – il 37,7 per cento dell’Emilia-Romagna del 2014 citato un po’ da tutti – è stato poi seguito dal 78,3 per cento del 2018, segno che offerte politiche diverse hanno generato livelli diversi di partecipazione elettorale.

«Si vota sempre di meno, ma si vota anche selettivamente», scrive D’Alimonte, ricordando che la partecipazione elettorale tendenzialmente è in calo, ma è anche intermittente, oscillante, varia con il variare dell’offerta politica. Non c’è una legge che inesorabilmente sancisce il calo dell’affluenza.

Allarme permanente

Se partiti e candidati selezionano temi e propongono in modo convincente soluzioni a problemi che stanno a cuore alle persone (oppure se convincono che gli avversari distruggeranno tutto quello che le persone hanno a cuore), gli elettori li voteranno. Altrimenti si asterranno.

Non è un segno dell’apocalisse imminente, è una dinamica naturale nel mercato delle idee: alcune funzionano, altre no. 

Sarà anche un modo cinicamente mercatista di vedere la competizione elettorale, ma l’astensione non è un trauma che richiede una sessione nazionale di psicanalisi per essere elaborato. 

Anche perché la riduzione della democrazia al solo momento elettorale è una lente deformante che ha dato un valore enorme al momento del voto, togliendola a tutte le altre articolazioni della partecipazione democratica. Così ogni volta che l’astensione si alza, l’allarme autoritario squilla, e gli elettori stanchi lo spengono e si rimettono a dormire.

Invece di riflettere sul cielo che è sempre più grigio, sarebbe – almeno in teoria – più facile chiedere al Pd di fare il Congresso il giorno dopo aver perso rovinosamente le elezioni politiche, invece di infliggere ai suoi elettori mesi di bizantinismi precongressuali in cui la discussione dal titolo “cosa offriamo ai nostri elettori?” diventa inevitabilmente una nota a piè di corrente. 

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