Dall’inizio della pandemia in Germania e Spagna sono cambiati due ministri della Sanità, in Gran Bretagna tre, in Francia quattro. In Europa insomma sono cambiati tutti i ministri del dicastero che, per forza di cose, è stato l’epicentro burocratico del contagio. Tranne a Malta. E in Italia, almeno al netto della crisi di governo in corso.

Da 900 giorni al numero uno di Lungotevere Ripa c’è il “mistero Speranza”. Un maratoneta: quarantatré anni, è un ministro resistente ai No-vax e ai disastri delle virostar. È sopravvissuto a un cambio di governo, agli attacchi delle destre e persino a quelli micidiali di un presidente di una regione di centrosinistra, Vincenzo De Luca (l’ultimo affondo è di pochi giorni fa: «Abbiamo un ministero della Salute che è virtuale. Se penso solo alla comunicazione che stanno dando per la quarta dose mi viene il mal di fegato per il livello di confusione e di improvvisazione»).

Non ha il physique del combattente: è magrissimo e mangia poco, aria di uno che non vede una spiaggia da tempo, sguardo da zero vita mondana. Anche per rispetto degli agenti che lo accompagnano: vive sotto scorta.

I suoi però favoleggiano su performance di tenuta psicofisica ai limiti del mitologico: stakanovista, attentissimo al rapporto con i parlamentari, concentrato sui numeri, tutte le sere controlla sul cellulare la sequenza del contagio, regione per regione, la confronta con quelle precedenti. Salvo eccezioni, si trattiene per non mandare il primo WhatsApp della giornata prima delle 6.30. Risponde anche nel cuore della notte.

La pandemia è tornata, Speranza l’aspettava in trincea. Perché c’è rimasto scottato quando, nell’estate dell’anno primo del contagio, il 2020, aveva scritto un libro dal titolo Perché guariremo. In realtà quel libro non diceva affatto che il Covid era finito, parlava della futura riforma della sanità. Ma nel settembre del 2020, nei giorni in cui era stata programmata la presentazione pubblica, il virus aveva ricominciato a girare all’impazzata. Le copie sono finite al macero, qualche esemplare è sfuggito al controllo, chi lo ha letto lo ha riempito di fischi. Lui ha incassato. «Non disponibile. Non sappiamo se o quando l’articolo sarà di nuovo disponibile», dice Amazon del suo libro. Storia chiusa. Ha imparato la lezione.

Prudenza e gesso

E quindi stavolta, nell’estate 2022 anno terzo della pandemia, il Covid non lo fregherà. I giornali della destra continuano ad attaccarlo per i suoi eccessi di prudenza, virtù cardinale della morale occidentale. Lui è rimasto testardamente prudentissimo. Come dall’inizio: nella primavera del 2020 l’Italia è stato il primo paese a bloccare i voli da e per la Cina (gli scali saranno interdetti più avanti, era un domino complicato ma è già una scelta da fantascienza). Fa scelte impopolari: viete l’accesso e l’uscita dai comuni “zona rossa”, blocca i movimenti interregionali.

Poi, ancora primo in occidente, propone il lockdown in tutto il paese. Toglie agli italiani tutte le gioie: stadi, cinema, teatri, concerti, bar, ristoranti, fiere, impianti sportivi. Sfida l’Altissimo e limita anche le attività religiose e i funerali. Papa Francesco benedice e chiude le chiese. C’è chi sostiene che in cambio poi Speranza nomini alla presidenza della Commissione assistenza anziani monsignor Vincenzo Paglia, gran cancelliere del Pontificio istituto teologico per le scienze del matrimonio e della famiglia. Poi il green pass, l’obbligo vaccinale. La valanga No-vax si scatena dalle tv.

Eppure, a scorno dei media, Speranza resta a oggi alto nel gradimento degli italiani. È, appunto, il mistero Speranza. Nonostante l’orda scatenata dei “liberatori” dalle mascherine, l’Italia è l’ultimo paese europeo ad “allentare” le misure anti Covid. Palazzo Chigi ordina, Speranza accetta ma solo perché sono cambiate molte cose dall’inizio. Oggi ci sono i vaccini, spiega, e i monoclonali e gli antivirali. Per questo si può gestire la coabitazione con il virus. Ma senza farsi illusioni.

I suoi la spiegano così: «Con una parte consistente del mondo non vaccinata, il virus continuerà a circolare e a subire mutazioni. Non possiamo abbassare la guardia». Serve continuare a vaccinare e usare le mascherine nei posti affollati. «La partita è ancora lunga», è il saluto di Speranza a chi lascia il suo studio dopo ogni riunione. Sembra una battuta del film Non ci resta che piangere.

Le riforme

Dal sito del ministero grondano numeri smaglianti: il 90 per cento degli over 12 in Italia ha completato ciclo primario. 40 milioni di booster somministrati. «Dati tra i migliori al mondo», viene spiegato con entusiasmo. Per il Pnrr siamo gentilmente invitati a meditare le relazioni ufficiali, ma la sintesi è che al 30 giugno la Sanità ha centrato tutti gli impegni sottoscritti con Bruxelles.

E l’ambizione oggi è quella di lasciare una sanità riformata. Ma data la fibrillazione del governo, ormai è una corsa contro il tempo. La scelta di fondo è tenere insieme investimenti e riforme. Non basta spendere nei tempi i 20 miliardi assegnati alla sanità, bisogna fare tre riforme: ridisegnare la sanità territoriale, realizzare una rivoluzione tecnologica e digitale, rilanciare la ricerca.

L’incubo è l’«imbuto formativo»: le borse di studio per la specializzazione post laurea erano nettamente inferiori al numero di laureati. Negli ultimi due anni prima le ha raddoppiate e poi triplicate. Ha convinto la Commissione europea a finanziare all’Italia un Piano nazionale salute (con fondi europei ordinari): 625 milioni aggiuntivi per il sud, per ridurre le disuguaglianze territoriali.

Sono risorse che si sommano a quelle del bilancio nazionale. «Il Fondo nazionale della sanità aumentava mediamente di un miliardo all’anno, negli ultimi tre anni è aumentato di dieci», spiega lui. Ma non è il tipo da esagerare nell’autoelogio, dai colleghi che ci sono cascati ha imparato a non strafare nelle dichiarazioni: «Non è merito mio ma del Covid. Oggi è chiaro a tutti che la sanità pubblica è il bene più prezioso che abbiamo».

In questi giorni il fine corsa del suo governo l’ha trovato al lavoro sulla riforma più difficile: cambiare la medicina generale, riorganizzare il sistema dei medici di famiglia.

La squadra

Obiettivo ciclopico, tanto più per uno che quando diventa ministro, di sanità sa poco più di zero. Ma rimedia studiando notte e giorno, chiamando con sé un gruppo di soldati e soldate affidabili, e di dirigenti di esperienza: Giovanni Rezza, direttore generale della Prevenzione, Giuseppe Ippolito, direttore generale della ricerca e dell’innovazione, Domenico Mantoan, presidente dell’Aifa, l’Agenzia del farmaco, e direttore della sanità veneta, il modello più avanzato della medicina territoriale.

Trova già al loro posto ma fa diventare centrali Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, e Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di Sanità. In tv, a fare a spallate, va il consulente Walter Ricciardi, professore di igiene all’università Cattolica e pasdaràn della prudenza. Potrebbe affidare il Pnrr a un giovane lucano: Stefano Lorusso, già dirigente Asl in Sardegna e nel Lazio, in corsa per diventare il nuovo direttore generale della programmazione, la direzione più importante del ministero.

La rabbia dei camici bianchi

Cecilia Fabiano/ LaPresse

Sugli esiti dei quasi mille giorni del ministero Speranza ci sono giudizi diversi e anche opposti. Ma c’è qualche indicatore spannometrico: il 21 aprile scorso il temibile presidente dell’ordine dei medici Filippo Anelli gli ha organizzato un’assemblea. Poteva essere un bagno di sangue. Speranza ha accettato e ha preso appunti per quattro ore, ascoltando 26 interventi e rispondendo a tutti. Su di lui c’è l’apprezzamento dei medici dell’Anaao Assomed, il sindacato più forte dei medici ospedalieri italiani, 20mila camici bianchi incazzati neri per i due anni trascorsi in trincea.

Certo, Speranza continua a essere il bersaglio dei No-vax che lo accusano di «terrorismo sanitario» e «dittatura sanitaria». Con la nuova campagna delle vaccinazioni, il quotidiano La Verità gli ha rivolto dieci domande che spaziano dal ritardo nella programmazione delle somministrazioni al non funzionamento di alcuni anticorpi. Lui non risponde. Non direttamente, almeno. Dal ministero viene sottolineato che gli studi dicono incontestabilmente che i vaccinati hanno una protezione sette volte maggiore dei non vaccinati; che il ministro è il capofila del pressing internazionale per anticipare al massimo il nuovo vaccino; che l’accusa di inerzia è ingiusta. L’11 luglio, poche ore dopo che l’Agenzia europea per i medicinali (l’Ema) e il Centro europeo per la prevenzione delle malattie (l’Ecdc) hanno raccomandato la seconda dose di richiamo, il ministero ha subito emanato il decreto e la circolare alle regioni.

Quelle dei No-vax non sono le uniche critiche che deve incassare. La Cgil e la Cisl, per esempio, rispetto all’ultimo decreto ministeriale lamentano che il Fondo sanitario è «inadeguato» per assicurare la riorganizzazione dell’assistenza sociosanitaria integrata territoriale. E manca di «un robusto piano di assunzioni e di stabilizzazioni tese all’abbattimento di un precariato oramai diffusissimo» con il rischio che «tutto il processo di riorganizzazione vada in crisi prima dell’avvio».

Speranza, che comunque ha un rapporto affettuoso con Maurizio Landini, anche su questo risponde a un’intervista su dieci. La mole delle questioni che deve affrontare atterrerebbe un massiccio roccioso. Ma lui ha la formazione per resistere. Perché se al suo arrivo al ministero poco sapeva della materia, una cosa aveva di sicuro, ed era una formazione tostissima e tutta politica.

Glielo ha riconosciuto Massimo D’Alema, durante un brindisi di Art.1, convinto di fargli un complimento. «Sono orgoglioso di Roberto perché ha fatto la cosa più di sinistra, difendere la vita delle persone contro le ragioni del profitto, di quelli che pensavano che per far funzionare l’economia contava poco se poi qualcuno restava ai margini delle strade», ha detto, «con uno stile che mi ha ricordato il modo in cui insegnavano a fare politica e a servire il paese nel Pci». Insomma, dice D’Alema, Speranza è bravo perché è un comunista. Pazienza se rischia di metterlo nei guai.

Ma è vero che è la politica il vero “mistero” di Speranza. Potentino, classe 1979, in realtà è figlio di un socialista lombardiano e di una signora inglese. Va a Roma a studiare scienze politiche alla Luiss, tesi con Luciano Pellicani sui fratelli Rosselli, dottorato in ricerca in storia dell’Europa mediterranea, Erasmus in Danimarca, e infine a Londra alla London School of Economics. Secchione inarrivabile. Appena laureato fa un colloquio con la Barilla a Parma. Assunto subito, subito sul trampolino per una carriera da manager. E invece dopo un anno molla e torna a casa: vuole fare politica. Nel 2004, a 25 anni, è consigliere comunale a Potenza con i Ds. A marzo 2007 è eletto presidente nazionale della Sinistra giovanile. In quell’estate nasce il Pd. Nel 2009 è assessore a Potenza. Alle primarie Pd sostiene la mozione di Pier Luigi Bersani ed è eletto segretario regionale del partito della Basilicata contro il candidato di Roma.

D’Alema e Bersani

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Se il suo cursus honorum parte da giovane dalemiano, con Bersani fa il salto nell’iperspazio. Il segretario emiliano lo adocchia. Vuole svecchiare il partito e promuovere una leva di giovani. Alle primarie per il candidato premier del 2012 sceglie una terna di juniores per rappresentarlo. C’è Tommaso Giuntella, uno scout, cattolico bindiano e molto movimentista (figlio dell’indimenticabile Paolo Giuntella, oggi fa il giornalista anche lui), c’è Alessandra Moretti, che fa la vicesindaca di Vicenza e già si capisce che buca il video (oggi fa l’eurodeputata). E terzo ma non terzo c’è lui, Roberto, il giovane vecchio che tiene le redini della politica. Al secondo piano della sede del comitato, dietro piazza di Pietra, è lui a sedersi a trattare con i capibastone. «Al primo piano c’eravamo noi che andavamo in giro per le iniziative con la chitarra in mano. Di sopra lui invece riceveva i mostri e usciva vincitore. Bravo a non esporsi, ma anche a non finire mai nella parte del portaborse», racconta Giuntella. Di lì all’elezione alla Camera è un passo.

È il 2013, l’anno della «non vittoria» di Bersani. Speranza è il pupillo del segretario che lo fa capo dei deputati in una legislatura che vede cose che voi umani: i 101 che impallinano Prodi al Colle, le larghe intese di Letta, l’avventura del renzismo. Bersani segretario salta, il nuovo panzer fiorentino lo vezzeggia, gli offre un ministero. Lui non accetta, resiste con disciplina e dissenso per un anno e mezzo e poi si dimette da capogruppo contro il Rosatellum. Fedele a Bersani ma anche convinto della «malattia del renzismo» (copy D’Alema) che attanaglia il Pd. Dal Pd uscirà nel 2017 con Bersani e D’Alema e fonderà Art.1. Ma il partitino non decollerà mai. Oggi, all’ultimo congresso, Speranza ha di fatto diramato l’ordine di rientro.

Ministro per caso

Ed è la politica, bellezza, e lo studio, che lo ha trasformato in pochi anni da giovane leva del comunismo a capo del dicastero con la macchina più complicata di tutti. È il settembre 2019. Leu, il cartello composto da Art.1 e Sinistra italiana con cui l’anno prima è stato eletto, è clinicamente già morto. Resiste il gruppo parlamentare, ma a un mese dal voto le due forze hanno già divorziato. La polvere dei litigi finisce sotto il tappeto perché nasce il governo gialloverde e tutti insieme finiscono all’opposizione. Un anno e mezzo dopo invece Matteo Salvini manda in crisi il governo, nasce il Conte II e Leu, da morente, si guadagna un ministero di peso. Speranza è l’unico papabile. È segretario di Art.1 ma affida la pratica del partito al numero due Arturo Scotto, una specie di blind trust che dura tutt’ora.

Lui si trasforma in un ministro. Lo scoppio della pandemia completa la mutazione: è una prova del fuoco per tutti quelli che si trovano nelle trincee della sanità. Per fare un esempio: il 16 ottobre del 2021, in piazza con la Cgil, i cronisti intercettano un lungo abbraccio fra Speranza e l’assessore della regione Lazio Alessio D’Amato. «È capitato a entrambi la gestione della più grande emergenza sanitaria del secolo», si spiegherà poi D’Amato, «ricordo quando gli telefonai per dirgli che i due cinesi erano positivi», i primi due casi scoperti a Roma, febbraio 2020, «da allora le vite di entrambi sono cambiate».

Con il premier Giuseppe Conte ha un rapporto di ferro (ci sarà un momento in cui potrebbero finire nello stesso partito, ma questa sarebbe un’altra storia, in queste ultime ore di crisi si sono sentiti ogni giorno). Ma giurano che è riuscito a conquistare anche Draghi, che lo ha confermato nel suo governo perché si era dimostrato un affidabile parafulmine a tutte le polemiche. Anche se Draghi prova a rendere più tecnico il ruolo del ministro. Speranza segue le indicazioni del nuovo premier, ma senza darlo troppo a vedere mantiene la sua natura di ministro politico. Ripetendo le sue convinzioni, ma solo se interrogato.

Che sono, primo: è un’illusione pensare che ci possa essere una ripresa economica senza mettere in sicurezza la salute degli italiani. Secondo: i soldi per la salute non sono un aumento di spesa ma il principale investimento per far ripartire il paese. Terzo: il mercato da solo non garantisce la salute. Quarto: solo l’evidenza scientifica può orientare le scelte di un governo.

Da Arcuri a Figliuolo

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E adesso che non c’è più la struttura dell’emergenza, ora che il generale Tommaso Petroni è succeduto al generale Francesco Paolo Figliuolo nella semplice Unità di completamento della campagna vaccinale, ora che ripartono le vaccinazioni, che succede?

Succede che il ministro non ha smobilitato niente. Ha mandato il segretario generale del ministero Giovanni Leonardi a fare il vicario del generale perché è convinto che quella struttura tornerà centrale. Del resto è la stessa scelta che ha fatto nella prima ondata quando ha lasciato una parte di peso del suo staff a Via Vitorchiano, sede della Protezione civile, con Domenico Arcuri, primo commissario all’emergenza Covid. Fra Arcuri e Speranza l’intesa era totale. Ma dopo il cambio di governo, il rapporto del ministro è stato affettuoso anche con il generale alpino, voluto da Draghi proprio per far fuori Arcuri. Figliuolo poi non gli poteva stare antipatico. «Ma è di Potenza!», risponde a chi chiede. Cioè di Potenza come lui.

Certo, la crisi di governo lo coglie all’ultimo miglio della meta, l’ambiziosa riforma della sanità. E se tutto dovesse finire nei prossimi giorni, Speranza si sente comunque ormai proiettato in quella che i detrattori chiamano «la short list» degli ex ministri che possono rifare presto i ministri. Temprato dalla pandemia, sente di essersi guadagnato la promozione nella serie A dei leader della sinistra. Anche se la sorte è strana: Conte lo ha fatto ministro, Conte, il suo amico Conte, rischia di mandarlo in panchina. O a casa. E di trasformare quel nome, quel destino scritto nella carta d’identità, in un inganno.

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