L’accordo europeo di lunedì sera sulla prossima direttiva sul salario minimo ha scatenato reazioni politiche entusiastiche in Italia, come se fosse finalmente in vista la soluzione alla stagnazione trentennale delle retribuzioni, oggi ulteriormente attaccate dalla fiammata inflazionistica esplosa con la guerra in Ucraina. Giace da oltre un anno in parlamento, nel disinteresse generale, la proposta di legge sull’introduzione del salario minimo di nove euro lordi all’ora, firmata dall’ex ministra del Lavoro del governo Conte 2 Nunzia Catalfo (M5s). Ma l’accordo politico raggiunto a Bruxelles su spinta della Francia di Emmanuel Macron, alle prese con le elezioni politiche e alla conclusione del semestre di presidenza europea che scade a fine giugno, ha fatto esplodere slogan e bandierine. Anche se la direttiva, quando arriverà, non fisserà alcun obbligo per l’Italia, come ha chiarito in mattinata il commissario europeo al Lavoro Nicolas Schmit. L’Italia ha già quasi tutti i lavoratori subordinati protetti da un contratto collettivo, mentre la direttiva riguarda i paesi con meno del 80 per cento di lavoratori coperti da contratto, come si capisce dalle anticipazioni sul sito della Commissione.

Ma nelle fibrillazioni della infinita campagna elettorale italiana la direttiva prossima ventura consente di aggiungere una nota in più sulle tematiche del lavoro e del recupero del potere d’acquisto delle famiglie.

Le reazioni italiane

Così «l’Italia deve evitare di rimanere indietro» rispetto al resto dell’Europa, sostiene il vicesegretario del Pd Giuseppe Provenzano. Mentre da Leu al M5s si vede l’occasione di «eliminare la vergogna degli stipendi da fame» - parole dell’ex premier Giuseppe Conte - «facendo ciò che ci chiede l’Europa».

Più cauto nello sventolare la bandiera europea è il centrodestra, con i ministri Giancarlo Giorgetti (Lega) e Renato Brunetta (Forza Italia) e il coordinatore di FI Antonio Tajani che ricordano come una simile misura potrebbe intaccare il delicato modello di relazioni industriali e della contrattazione nazionale.

In quasi tutti i commenti sembra che una legge sul salario minimo orario sia la soluzione per contrastare il lavoro povero e precario o fragile, informale. «Una bandiera di dignità», come l’ha presentata ieri mattina su Twitter la stessa presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen.

L’Italia insieme ai paesi scandinavi, all’Austria e a Cipro è uno dei pochi paesi europei a non avere il cosiddetto minimum wage, o salario minimo fissato dallo stato, ma al contrario degli altri ha una perdurante stasi salariale e alti tassi di disoccupazione, precarietà, lavoro nero e working poor o lavoratori poveri.

È dubbio che il salario minimo incida su questi mali. Il minimo salariale, una volta introdotto per legge, non riguarderebbe i lavoratori non contrattualizzati, falsi autonomi o part time involontari o al nero, cioè la gran parte del lavoratori poveri, che si concentrano nei settori dei servizi, della ristorazione e del turismo, nell’edilizia, tutti settori a bassa intensità di tecnologia e capitale.

Il nodo dei contratti

Per quanto riguarda i lavoratori contrattualizzati, la quasi totalità degli oltre 900 contratti di lavoro depositati al Cnel, che siano firmati da Cgil Cisl e Uil, le organizzazioni maggiormente rappresentative, o da sindacati gialli o di comodo (i cosiddetti contratti pirata) presentano minimi tabellari più alti dei nove euro lordi indicati nella proposta Catalfo.

Tutti tranne sei, che riguardano badanti, vigilantes, addetti alle pulizie nelle aziende multiservizi, che vanno dai quattro euro e mezzo l’ora a sette. Il 29 per cento dei lavoratori italiani, circa quattro milioni e mezzo di persone, in base alle rilevazioni Ocse non guadagna abbastanza, cioè ha uno stipendio di meno di 1.100 euro netti mensili, equivalente a una mensilità di 40 ore settimanali a nove euro lordi su base annua, ed è dunque a rischio povertà.

Ma ciò non dipende quasi mai dai minimi applicati, quanto dalla scarsità di lavoro offerto e in ultima analisi dal ricatto della disoccupazione.

Lavoro nero e controlli

Secondo l’economista del lavoro Michele Raitano, che ha guidato la commissione ministeriale sulla povertà lavorativa, l’introduzione di un salario minimo di legge «può essere un segnale positivo, un messaggio, ma resta il problema della sua esigibilità», visto che la soglia serve unicamente come parametro per le cause di lavoro.

Per Raitano si dovrebbe prima di tutto rettificare la vigilanza documentale dell’Inps, che, controllando i contributi previdenziali, dovrebbe censire lavoratore per lavoratore e imprese per impresa che tipo di contratto viene adottato, per quante ore la settimana e per quale livello contrattuale.

In questo modo gli ispettori del lavoro potrebbero intervenire sulle anomalie conclamate e combattere, sulla base di un sistema sanzionatorio ancora da inventare, l’evasione salariale (e contributiva) che riguarda un quarto dei lavoratori delle regioni del sud e il dieci per cento di quelli del nord.

Altra misura fondamentale sarebbe sfoltire la giungla di tipologie contrattuali e ridurre il numero dei settori. Secondo l’Istat esistono infatti oltre 80 settori codificati, ognuno dei quali può avere diversi contratti: definire in quale perimetro il singolo lavoratore in carne e ossa deve essere collocato non è semplice neanche per un giudice del lavoro.

Il salario minimo legale non si applicherà comunque a chi ne avrebbe bisogno. La politica però non trova una bandiera più comoda per misurarsi con i drammi del mercato del lavoro. Per la Caritas, che si occupa di poveri, c’è il rischio di un «effetto boomerang».

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