Saliti alla ribalta dopo i numerosi exploit militari degli ultimi anni, i velivoli a pilotaggio remoto – comunemente noti come droni – sono ormai parte dell’inventario di un numero sempre maggiore di paesi così come di vari gruppi armati non statali, incluso lo Stato Islamico, seppur nella forma di sistemi con capacità più ridotte.

Dalla guerra civile siriana al lungo assedio di Khalifa Haftar contro Tripoli, passando per il Nagorno-Karabakh e l’attuale conflitto in Ucraina, abbondano gli esempi e le conferme di un ruolo sempre più centrale ricoperto dai droni nella condotta delle operazioni militari, con i video degli attacchi lanciati dai famosi TB2 di fabbricazione turca contro obiettivi siriani o armeni alacremente diffusi da Turchia e Azerbaijan e in grado di generare milioni di visualizzazioni in pochi giorni.

Questa crescente iperbole mediatica ha dato un’ulteriore spinta allo sviluppo e alla già redditizia vendita di questi sistemi, ormai divenuti uno dei prodotti di maggior tendenza e con grandi prospettive di crescita nel mercato internazionale della difesa.

L’esempio più calzante è quello dei droni turchi come il TB2 o i modelli della famiglia Anka, che nel giro di appena 3 anni sono stati esportati in almeno dieci paesi, con altrettanti – inclusa la Polonia – in fase di definizione dei contratti di acquisto.

Anche grazie all’assenza di vincoli o clausole etiche sulle esportazioni di questi assetti, contrariamente agli Stati Uniti, la Turchia è riuscita a ritagliarsi un’ampia nicchia nel settore, arrivando a competere, in termini di mercato, con la Cina e Israele.

L’azienda Baykar, produttrice del TB2, ha inoltre saputo sfruttare il ritorno economico delle vendite reinvestendo in ricerca e sviluppo tecnologico, mettendo a punto sistemi di nuova generazione come l’Akinci o il Mius che, in termini di prestazioni, avranno poco da invidiare a quelli americani o israeliani. In un contesto internazionale caratterizzato da crescente competizione, il trend di sviluppo dei velivoli a pilotaggio remoto non potrà che aumentare.

Il clamore mediatico ha indotto vari osservatori a parlare dei droni come di un’“arma definitiva” in grado di decidere le sorti di un conflitto. I droni sono davvero quello che nel mondo anglosassone è detto “game changer”?

L’evoluzione

Definire i droni rivoluzionari sembra quantomeno azzardato: esistevano con forme e scopi similari già a partire dagli anni Cinquanta – basti ricordare, ad esempio, l’An/Usd-1 impiegato dall’esercito americano per missioni di ricognizione – mentre l’uso di rudimentali palloni aerostatici radio-controllati in grado di rilasciare cariche esplosive risale addirittura al primo conflitto mondiale.

Ukraine's military has shown surprising effectiveness using low-cost Turkish drones to attack invading Russians. (AP Graphic)

Fare paragoni in termini tecnologici è sempre azzardato ma ciò che conta è il fine primario che ha caratterizzato questi sistemi durante il loro sviluppo, ossia quello di raccogliere informazioni e intelligence sul nemico, che nel tempo è rimasto invariato.

 La capacità di lanciare missili ha rappresentato un salto di qualità notevole, accorciando il tempo di reazione tra raccolta e analisi delle informazioni e l’eventuale reazione cinetica, mitigando il problema di come sfruttare al meglio quella che nel gergo militare occidentale è nota come “actionable intelligence”.

Il valore aggiunto dei droni armati non cancella il loro scopo fondamentale di sorveglianza, ricognizione e raccolta di informazioni, che condividono con altri assetti o strumenti e che rimane un tratto distintivo e immutabile della guerra sin dalle sue origini.

I velivoli a pilotaggio remoto hanno portato questa capacità ad un nuovo livello, soprattutto grazie all’invio delle immagini in tempo reale e per lunghi periodi, ma non ne hanno (per il momento) rivoluzionato la natura.

Guardando poi al loro impatto nelle operazioni militari, nel caso dei droni armati, questo non si limita al colpire l’obiettivo ma anche a raccogliere e trasmettere informazioni fondamentali circa la presenza, lo stato e i movimenti dell’avversario, o – per i sistemi più avanzati – interrompere e intercettare le comunicazioni nemiche, nonché oscurare i radar e gli apparati di difesa aerea e missilistica grazie a capacità di guerra elettronica.

I droni non funzionano in isolamento, bensì in sinergia con diverse componenti dell’apparato militare, partendo dalla rete di comando e controllo centrale fino alla singola unità avanzata di osservazione e ricognizione sul campo.

Senza le altre funzioni, i velivoli a pilotaggio remoto vedono quindi diminuire la loro efficacia. Il drone, quindi, è solo una componente di un sistema più complesso, o ecosistema, il cui funzionamento dipende da un’efficace integrazione tra diversi elementi e su varie dimensioni dello spettro militare.

Questo è ciò che oggi viene definito “architettura network-centric”, in cui l’attenzione si sposta da una prospettiva “platform-centric” verso la combinazione di più assetti. Nell’utilizzo dei droni in contesti bellici ad alta intensità, i turchi sono quelli con l’esempio migliore, riuscendo a sintetizzarne i precetti in un concetto di operazioni (Conops) che ha consentito ad Ankara di ottenere notevoli risultati sul campo.

Il precedente della Siria

Questo è emerso in Siria, durante l’operazione Spring Shield del marzo 2020, quando i TB2 e gli Anka-S turchi hanno partecipato alla distruzione di buona parte dell’esercito di Assad nell’area di Idlib, agendo in sinergia con altri assetti.

Nelle diverse fasi dell’operazione i droni hanno beneficiato del sistema di guerra elettronica turco Koral, che ha soppresso le difese aeree siriane - oscurandone e disabilitandone gran parte dei radar e delle comunicazioni; hanno individuato e illuminato i bersagli per l’artiglieria a lungo raggio turca; e fornito supporto aereo ravvicinato ai ribelli filoturchi colpendo incessantemente le colonne di veicoli siriani con munizioni guidate, giovando altresì della copertura aerea dei missili a lungo raggio lanciati dagli F-16 turchi operanti all’interno del proprio spazio aereo, responsabili dell’abbattimento di almeno due caccia Su-24 siriani.

Anche il conflitto nel Nagorno-Karabakh tra Azerbaijan e Armenia ha visto i droni e le munizioni circuitanti – o loitering munitions, ossia munizioni con sensori elettro-ottici che possono orbitare per un determinato lasso di tempo alla ricerca di un bersaglio - giocare un ruolo nella vittoria azera, ma sempre in un complesso di mutua interazione con altri assetti, inclusi quelli di guerra elettronica forniti a Baku dall’alleato turco.

Un aspetto degno di nota che accomuna gli esempi di Siria, Nagorno-Karabakh e anche la Libia, è stata la capacità dei TB2 di distruggere sistemi di difesa aerea di fabbricazione russa, come il Pantsir S-1 (di cui dieci solo in Libia), specificatamente designati per fronteggiare simili minacce, grazie all’azione cruciale del Koral.

Come si usano i droni in Ucraina  

FILE - A Turkish-made Bayraktar TB2 drone is displayed during a rehearsal of a military parade dedicated to Independence Day in Kyiv, Ukraine, Aug. 20, 2021. The drones, which carry lightweight, laser-guided bombs, have carried out unexpectedly successful attacks in the early stages of Ukraine's conflict with Russia. (AP Photo/Efrem Lukatsky, File)

In Ucraina, l’utilizzo dei droni e delle loitering munitions sta avvenendo con modalità in parte differenti. Entrambi gli schieramenti stanno sfruttando i droni, inclusi modelli commerciali, soprattutto per identificare i bersagli e indirizzare con precisione il tiro della propria artiglieria.

Le forze ucraine hanno avuto particolare successo, impiegando il fuoco indiretto per compensare la disparità in termini di mezzi corazzati rispetto alla Russia. Uno degli esempi più interessanti è quello del bombardamento dell’aeroporto di Kherson, caduto sotto controllo russo, dove svariati elicotteri e veicoli di Mosca sono stati individuati dai TB2  e distrutti dall’artiglieria ucraina.

Kiev ha utilizzato i suoi TB2 anche per missioni offensive, prioritizzando però, contrariamente a quanto fatto dalle forze azere in Nagorno-Karabakh o dai turchi in Siria, il ventre molle dell’offensiva russa: la logistica e le unità di supporto.

In poco più di un mese di guerra i TB2 ucraini hanno distrutto o danneggiato almeno 51 obiettivi russi, tra cui molti veicoli per il trasporto e dieci sistemi di difesa aerea – inclusi i moderni Pantsir e Tor-M1, erodendo la sostenibilità dell’attacco avversario.

Da parte russa, l’uso dei droni da attacco, in particolare l’Orion, sembra avvenire per il momento su scala più limitata, visto il minor grado di integrazione e perfezionamento di questo strumento nella dottrina operativa di Mosca. Miglioramenti in tal senso non tarderanno comunque ad arrivare.

Questi successi non devono però farci illudere sulla presunta infallibilità dei droni. In primo luogo, per via delle specificità degli attori, delle loro capacità, e del contesto operativo, è azzardato considerare una tendenza propria di uno specifico conflitto come universale.

Come dimostra l’ingente numero di velivoli abbattuti in tutti gli esempi citati, i droni rimangono particolarmente vulnerabili ai sistemi di difesa antiaerea e di guerra elettronica utilizzati al pieno delle loro capacità.

I droni non possono vincere una guerra da soli perché la loro efficacia si basa sull’interdipendenza con altre unità e assetti in un ecosistema complesso nel quale agiscono come moltiplicatori di forza.

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