Da ultimo, Matteo Renzi. L’ex segretario Pd, dal Riformista, si è divertito a offrire un consiglio-sfottò alla segretaria del Pd «amletica» che non sa se si candida alle europee o no. In questi giorni Elly Schlein è alluvionata da suggerimenti e richieste dello stesso genere. Il guaio è che già in generale lei diffida dei consiglieri, («li ascolto il giusto», dice lei). Se poi è Renzi a offrire la sua consulenza, la prenderà come un motivo in più per rinviare la scelta. O forse l’annuncio di una scelta fatta da tempo.

Oggi a palazzo Madama i senatori Pd si riuniranno per «un chiarimento» sul voto sulle risoluzioni in Ucraina: in sei hanno detto sì al testo del governo, contro le indicazioni del gruppo. Ma l’argomento della corsa della segretaria, la madre di tutti gli attuali malumori interni, resterà tabù.

Per parlarne, tutti aspettano la convocazione della prima riunione della direzione dell’anno: che però, curiosamente, non è ancora arrivata. Sabato scorso da Avezzano, dove Schlein è andata a sostenere il candidato presidente Luciano D’Amico (in Abruzzo si vota il 10 marzo), lei ha spiegato che sul punto della sua corsa alle europee «non ci sono novità». E che non si sente affatto assediata dal gruppo dirigente.

Notabili e seniores

Non sarà un assedio. Ma ormai ogni giorno qualcuno le chiede conto di quello che intende fare. E poi ci sono i seniores, gli ex segretari e gli ex presidenti, i padri nobili del Pd e quelli nobilitati dall’oblio dei fallimenti. Nel primo gruppo c’è Romano Prodi: le ha già detto che candidarsi senza poi fare l’europarlamentare è «un vulnus per la democrazia». E Pier Luigi Bersani, fedele supporter di Schlein, in tv ha cercato di sviare la domanda ma poi ha dovuto rassegnarsi a dire quello che pensa: «Deciderà per il meglio, ma quello che decide lo faccia molto serenamente perché nel elettorato del centrosinistra queste cose contano meno, tanto guiderà lo stesso la battaglia». E la corsa-civetta? Meloni la farà, Silvio Berlusconi l’ha fatta, ora anche sinistra si può fare? «È opinabile. C’è questo aspetto. Non va sottovalutato».

Gli anziani per Schlein sono croce e delizia. Prodi e Bersani sono quelli del gruppo delizia. Poi ci sono quelli del gruppo croce. L’ex premier e ora commissario Paolo Gentiloni ha annunciato la sua rinuncia a correre per le europee e il suo «ritorno» in Italia è suonato come una mezza minaccia: perché qualche buontempone fa circolare l’idea che in caso di crisi, Gentiloni sarebbe un papabile segretario-traghettatore. L’ex segretario Enrico Letta in teoria dovrebbe essere stato un suo sostenitore, anche se non lo hai mai detto pubblicamente: comunque l’ha pilotata alla segreteria, cambiando lo statuto per permetterle di candidarsi alle primarie da neoiscritta.

Prima l’aveva attirata al Pd nominandola madrina delle Agorà (non le ricorda più nessuno, sono state le assemblee con cui il segretario cercò di revitalizzare un partito boccheggiante). Oggi Letta non dice una parola. Chi lo conosce lo sa pentito. E concentrato nella stesura del rapporto sul futuro del mercato unico che deve presentare al Consiglio europeo di primavera: un perfetto alibi istituzionale per tenersi alla larga dalle beghe di partito.

Nicola Zingaretti, altro ex segretario, invece gli è rimasto accanto. Lui correrà per le europee: ma al Corriere ha spiegato che «affronteremo anche il tema delle candidature ed Elly su questo tema farà le scelte che si riterranno più forti». Non proprio una ola. È rimasto dalla sua parte anche Dario Franceschini, un altro ex segretario. Ma si è chiuso in un silenzio poco assenso e molto attesa. È taciturno anche il popolare in capo Pierluigi Castagnetti. Segnali invece da Arturo Parisi, inventore dell’Ulivo e Mosé della scolpita legge etica ulivista «meglio perdere che perdersi»: sui social ha rilanciato lo stop di Prodi.

La segretaria non vuole dire quello che farà perché, lo ha spiegato ai suoi, vuole assicurarsi che tutti i candidati sui territori «corrano», a prescindere dalla possibilità di essere eletti. E così tiene tutti a bagnomaria. E alimenta i retroscena: l’ultimo, fiorito sul sito della Stampa e firmato dall’autorevole Fabio Martini, sostiene che lei correrà e poi farà l’eurodeputata. Ma di questi tempi, traslocare nella lontana Bruxelles, per un segretario di partito, equivale ad andarsi a cercare un guaio: Zingaretti le potrebbe raccontare com’è difficile fare governare un partito senza stare in parlamento (lui era presidente della regione Lazio).

Le parole ma di più l’esempio

Ma il vero ingombro degli ex, per Schlein, non è quello che dicono o non dicono. È quello che hanno fatto, nella storia del Pd. Zingaretti non si è candidato alle europee del 2019, quando il Pd prese il 22,7 per cento; Renzi non si è candidato del 2014, quando il Pd prese il 40. E Franceschini non si è candidato nel 2009. Stessa musica prima che nascesse: Piero Fassino, da segretario Ds, e Francesco Rutelli, da segretario Margherita, non si candidarono alle europee 2004. Neanche per trainare la lista Uniti nell’Ulivo voluta da Prodi. Anche lui, all’epoca presidente della Commissione europea, non volle candidarsi.

Morale: sono almeno vent’anni che a sinistra vale la regola non scritta che il leader non si candida a Bruxelles, all’opposto di quello che dall’altra parte nel frattempo faceva Berlusconi.

In precedenza si candidavano, ma comunque da questa parte la cinquina non l’ha tentata nessuno: Walter Veltroni, da segretario Ds, si candidò alle europee 1999 ma in una circoscrizione. Al giro prima, nel 1994, Achille Occhetto, segretario Pds, si candidò. E lo aveva fatto anche nel 1989 da segretario del Pci. Ma in entrambi i casi in tre circoscrizioni, e poi aveva accettato il mandato. Come Enrico Berlinguer, candidato nel 1979 ed europarlamentare fino al 1982.

Insomma, più che le parole dei seniores, Schlein deve temerne l’esempio. Se alla fine vorrà seguirlo, dunque non correre, dovrà cercarsi un argomento forte visto che si è bruciata i migliori («sì perché non è corretto candidarsi se non si resta a Bruxelles», «sì perché il Pd ha una classe dirigente da schierare, a differenza di Giorgia Meloni»). Se invece vorrà dirazzare, deve cercarsi una ragione fortissima, che respinga in blocco tutte le obiezioni. In primis l’accusa di personalismo: quella che tutti facevano al detestato Renzi. Che è stato un monarca assoluto del suo “PdR”, il partito di Renzi: ma neanche lui si è spinto così avanti da mettere il suo nome su tutte le ruote, come un leader di destra. Renzi oggi annuncia la corsa per Bruxelles: ma ora è leader di quello che nel Pd definiscono con sufficienza un «partitino personale».

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