Scaduti i tempi televisivi del caso Soumahoro, si può discutere delle cose essenziali, al di là del caso personale e del brutto vizio della politica di creare e bruciare miti senza pietà. Vale la pena, per esempio, ritornare a quel riferimento al “diritto all’eleganza e alla moda” per difendere la propria moglie.

Quello usato dal parlamentare non è solo un argomento difensivo, ma una tesi politica. Come tale va presa sul serio, perché dice molto sulla sinistra. Per certi versi ricorda una rivendicazione antica: vogliamo il pane ma anche le rose. Può darsi che l’eleganza sia per i nostri tempi ciò che erano le rose nel secolo scorso.

Per capirlo bisogna rammentarsi che ogni volta che si rivendica un diritto, si tratta di comprendere a quale bisogno sociale ci si sta rivolgendo. In fondo anche questa è una grande eredità della nostra Costituzione: a ogni diritto corrisponde un bisogno.

La sinistra e i bisogni radicali

Ma che posto ha questo bisogno all’interno della società? Che gruppi sociali connota? Uno dei difetti fondamentali della sinistra post-novecentesca è di aver interrotto l’accordo fondamentale tra i diritti e i bisogni, che è invece uno dei caratteri differenziali tra destra e sinistra (a meno di non voler limitarsi alla distinzione fondata sull’uguaglianza, vera ma troppo generica). La destra farà politiche volte a garantire dei diritti che sono in continuità con l’ordine sociale esistente e che corrispondono ai bisogni delle classi dominanti.

La sinistra dovrebbe invece mettere al centro delle sue scelte i cosiddetti “bisogni radicali”, che si caratterizzerebbero per due elementi. Il primo è che sono bisogni che non valgono solo per chi ne sente la necessità, ma per buona parte della società: non sono individuali ma universali. Il secondo è che sono bisogni che contraddicono l’ordine sociale esistente e ne richiedono una modifica. Sono emancipatori.

Ecco, perché ci sia di nuovo vita a sinistra basterebbe utilizzare i criteri dell’universalità e dell’emancipazione per chiarirsi le idee su quali siano i bisogni da rappresentare. E qui si capisce subito come il diritto all’eleganza sembra far riferimento a un bisogno di tutt’altro genere. Un bisogno del tutto individuale – che cioè riguarda la vita solitaria di coloro che pretendono di esercitare quel diritto – e del tutto conformato all’ordine vigente: la moda non è esattamente l’estetica dell’ordine vigente? Sinceramente, lascerei la rivendicazione del diritto all’eleganza alla destra e alle sue cene (e non mi riferisco solo a Berlusconi, ma anche a quella recente cena televisiva in cui si discuteva di come umiliare gli studenti).

Alcuni esempi per la sinistra odierna

Suggerirei piuttosto alla sinistra di ripensarsi a partire dalla concretezza dei bisogni radicali. Faccio solo alcuni esempi per mostrare quanto sia dirompente recuperare tale paradigma. Molti partiti sono ormai convinti che si possa difendere la sanità pubblica senza andare contro il sistema privato.

Invece, se partiamo dai bisogni radicali, comprendiamo come si può difendere il pubblico solo andando contro il sistema privato. Non per anticlericalismo o per pregiudizi novecenteschi. Ma perché il bisogno di cura viene interpretato tramite la sanità pubblica in forma universale, mentre il sistema privato soddisfa bisogni prettamente individuali.

Più semplicemente: non è la stessa cosa difendere un sistema che garantisce il bisogno di tutti contro un sistema che garantisce il bisogno di ciascuno. Nel secondo caso infatti il bisogno sarà soddisfatto in forma individuale: ognuno avrà potenzialmente il diritto di pensare a se stesso, disinteressandosi degli altri.

Un bisogno individuale a cui corrisponde una soddisfazione altrettanto individuale dei diritti, contro un bisogno non ego-riferito a cui corrispondono diritti davvero universali, che cioè valgono per tutti allo stesso modo. È solo un esempio, ma le conseguenze politiche sono ben chiare: costringerebbero la sinistra a modificare finalmente le proprie proposte.

Avanzo ancora due esempi sul carattere emancipatorio dei bisogni che l’agenda della sinistra dovrebbe rimettere al centro. Il primo esempio è il diritto alla disconnessione, che non è legato soltanto alla privacy, ma che è un vero diritto sociale. Prendiamo le partite iva che spesso fanno riferimento a più datori di lavoro.

La consuetudine è ormai che, non essendoci orari da rispettare, sia sufficiente un contratto minimo per sentirsi in diritto di chiedere la presenza del lavoratore a qualunque ora di un qualunque giorno, senza alcun rispetto né per la vita privata né per la vita lavorativa di quella partita Iva che, probabilmente, sarà costretta all’ubiquità per venire incontro alle esigenze assolutistiche dei suoi datori di lavoro.

Mentre la destra propone soltanto meno tasse, la sinistra dovrebbe difendere i bisogni delle partite Iva rivendicando il diritto alla disconnessione: mettendo al riparo spazi che appartengono alla vita di tutti dalla colonizzazione del mercato che mette a valore ogni istante della nostra vita. Lo stesso effetto si avrebbe col secondo esempio: il tema ricorrente e oggi dimenticato della riduzione dell’orario di lavoro.

Più che quelle economiche, sono le conseguenze sociali di questa proposta che la sinistra dovrebbe avere a cuore. Infatti, mi pare chiaro che i bisogni oggi più emancipativi siano quelli che sentono l’esigenza d’invertire la tendenza neoliberista di consumare e inibire gli spazi in cui la socialità si può esprimere al di fuori del mercato. Abbiamo bisogno di guadagnare spazi e tempi in cui possiamo essere donne e uomini, cittadini, ma non lavoratori o consumatori.

Sono consapevole che qualcuno dirà che questi spazi che la sinistra dovrebbe guadagnare servirebbero a rendere ancora più frequentati i centri commerciali. Ma quest’argomento è in realtà quello decisivo per rafforzare la mia tesi: se la sinistra non si occupa dei bisogni, ci pensa il neoliberismo di cui la destra è il braccio politico. Se vuole tornare a incidere, è alla politica dei bisogni che la sinistra deve rivolgersi.

© Riproduzione riservata