«Nessun atto riguardante la tragedia del DC9 è coperto da segreto di stato», ha affermato la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, dopo le parole di Giuliano Amato su Ustica. Al contempo, il vicepresidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), Giovanni Donzelli, è parso affermare l’opposto – «noi da sempre chiediamo la desecretazione di tutti gli atti e le pagine non chiare di quegli anni» – e così pure il ministro Adolfo Urso, che ha dichiarato di essere «vincolato al segreto». Peraltro, negli ultimi anni, anche altri esponenti di Fratelli d’Italia si sono più volte lamentati della mancata trasparenza degli atti sulle stragi. Siccome sui “segreti” relativi a Ustica e ad altre vicende c’è un po’ di confusione, può essere utile qualche chiarimento.

Segreto di stato e classificazione

Il segreto di stato è un vincolo di natura politica che può essere disposto esclusivamente dal presidente del Consiglio su atti, documenti, notizie, attività e altro la cui conoscenza può danneggiare gravemente interessi fondamentali dello stato. Esso non può riguardare, tra l’altro, informazioni relative a fatti eversivi dell’ordine costituzionale o terrorismo, delitti di strage, associazione a delinquere di stampo mafioso. Tale forma di segreto, a differenza di altre, impedisce all’autorità giudiziaria l’accesso alle notizie sulle quali esso è apposto.

C’è poi la classifica di segretezza – segretissimo (SS), segreto (S), riservatissimo (RR), riservato (R) – che è cosa diversa dal segreto di stato. Essa ha natura amministrativa, può essere apposta dai soggetti operanti nell’ambito del sistema nazionale di sicurezza e limita alle sole persone abilitate la conoscenza di determinate informazioni, che sono comunque accessibili da parte dell’autorità giudiziaria. Le classifiche sono lo strumento ordinario per gestire attività pubbliche di natura sensibile (in campo militare, economico, delle comunicazioni ecc.).

Le direttive sulla declassifica

Con una direttiva dell’aprile 2008, l’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi, su proposta di Giuliano Amato, all’epoca ministro dell’Interno, invitò le amministrazioni in possesso di carteggi sul rapimento di Aldo Moro ad avviare la loro declassifica. Nel 2010 fu individuato l'Archivio centrale dello stato come ente preposto alla conservazione unitaria della documentazione.

Nell’aprile 2014, l’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dispose con una direttiva che tutte le amministrazioni versassero all’Archivio la documentazione degli anni 1969-1984 relativa «agli eventi di piazza Fontana a Milano (1969), di Gioia Tauro (1970), di Peteano (1972), della questura di Milano (1973), di piazza della Loggia a Brescia (1974), dell’Italicus (1974), di Ustica (1980), della stazione di Bologna (1980), del Rapido 904 (1984)». Con una direttiva del dicembre 2014, poi, Renzi invitò le amministrazioni a effettuare o completare in via definitiva il versamento della documentazione sul caso Moro, voluto da Prodi.

Nell’agosto 2021, una direttiva dell’ex presidente del Consiglio, Mario Draghi, ampliò la declassifica e il conferimento del materiale concernente l’organizzazione Gladio e la loggia massonica P2.

I limiti della declassifica

In via ordinaria, gli organi giudiziari e amministrativi versano i documenti all’Archivio dello stato dopo trent'anni dalla chiusura del fascicolo, come previsto dal codice dei beni culturali. Tuttavia, ciò non rende tali documenti liberamente consultabili, poiché il codice preclude l’accesso per 40 anni a quelli contenenti dati sensibili e dati relativi a provvedimenti di natura penale; 50 anni, se i dati riguardano la politica estera o interna dello stato; 70 anni, se i dati attengono alla sfera personale. A seguito della direttiva del 2014, fu nominata una Commissione che individuò criteri e modalità di versamento degli atti, nonché le tipologie di informazioni da tutelare mediante obliterazione, cioè apposizione di segni grafici di colore nero sulla versione digitale degli atti stessi.

Pertanto, nonostante la declassifica renda consultabili i documenti riguardanti diverse vicende, restano tuttavia non conoscibili una serie di informazioni. Circa Gladio e la loggia P2, la direttiva del 2021 ha ampliato i criteri di accesso, prevedendo la tutela di un’unica tipologia di informazione relativa «ai dati identificativi degli operatori istituzionali», oltre al parere obbligatorio di stati esteri o Nato per i documenti da essi prodotti e ai dati particolari per i quali vige il limite dei settant’anni.

Le criticità della declassifica

Nell’ottobre 2022, il Comitato consultivo sulle attività di versamento all’Archivio centrale dello stato – Comitato previsto dalla direttiva del 2014 e istituito nel settembre 2016 – ha pubblicato una relazione dalla quale emergono una serie di criticità sugli atti relativi a diversi casi, tra cui Ustica.

In primo luogo, il contenuto di alcuni documenti versati dalle amministrazioni in attuazione delle citate direttive «è quasi totalmente “obliterato”» – afferma il Comitato – «tanto da rendere incomprensibile il documento medesimo. Tale situazione ha come effetto quello di rendere la desecretazione solo una operazione formale, ma non sostanziale, non consentendo la conoscibilità di alcuna informazione dal documento c.d. “omissato”». Insomma, si tratta di «documenti nella sostanza non leggibili perché coperti da “omissis” che sono andati ben oltre lo stretto necessario». Pertanto, è necessaria «una operazione di revisione degli “omissis” posti in eccesso». Anche il Copasir, nella relazione sull’attività svolta nel 2021, aveva rilevato come «la consultabilità e accessibilità» di tali documenti fossero «ardue».

In secondo luogo, nel tempo «le amministrazioni hanno avuto talora scarso controllo della propria documentazione» e ciò – secondo il Comitato – «ha causato in alcuni casi dispersioni o perdita di fonti rilevanti». In particolare, i conferimenti effettuati dal ministero dei Trasporti – il cui ruolo è centrale in molte vicende – «presentano una sostanziale lacunosità sia per la scarsità dei documenti versati sia per la totale assenza di documentazione coeva alle stragi interessate dalla direttiva del 2014», che «hanno segnato tragicamente il nostro paese», e ciò «non è accettabile» afferma il Comitato.

Tale circostanza è emersa anche nel gennaio 2023, nell’ambito di un’interrogazione parlamentare di Luigi Marattin (Italia viva), cui la sottosegretaria del ministero dei Trasporti, Fausta Bergamotto (Fratelli d’Italia), ha confermato che mancano «tutti i documenti relativi al periodo 1968-1980 dell’archivio del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, nonché tutta la documentazione afferente al ministro e al capo di gabinetto». Insomma, non solo la «documentazione in merito a stazioni che vengono fatte saltare in aria o ad aerei che cadono», come ha replicato Marattin, ma qualunque atto.

Alle rilevate criticità si aggiunga che, come accennato, la direttiva del 2021 dispone che per la divulgabilità degli «atti della Nato o di altri soggetti esteri», è necessario sia interpellato preventivamente «l’ente originatore al fine di acquisirne il prescritto parere». In mancanza di riscontro positivo, gli atti restano riservati. Ancora, dopo la direttiva del 2014 non sono state versate le serie complete degli atti, ma documentazioni frammentate, cioè solo «quei faldoni che portano sul dorso il nome della strage», con il rischio che non emergano atti rilevanti conservati in faldoni diversi. E soprattutto, non conoscendo cosa c’è negli archivi delle amministrazioni, poiché manca un ente che abbia una visione di insieme della documentazione disponibile, manca pure la certezza che esse abbiano davvero versato tutte le carte a loro disposizione.

Detto tutto questo, ha ragione la presidente del Consiglio quando dichiara che sulla strage di Ustica non c’è il segreto di stato. Ma può affermarsi che non ci siano “segreti” sui documenti relativi a questa e ad altre stragi?

© Riproduzione riservata