I primi mesi di Antonio Tajani alla guida della Farnesina hanno avuto alti e bassi. Le prime nomine del ministro sono state seguite con particolare attenzione: su tutte, quella del segretario generale che sarà il successore di Ettore Sequi, potente guida operativa del ministero negli anni di Luigi Di Maio a un passo dalla pensione. Tajani ha scelto Riccardo Guariglia, un nome considerato da molti non all’altezza dei suoi predecessori (prima di Sequi c’era Elisabetta Belloni, oggi a capo dei servizi segreti), ma che comunque «può garantire che non ci saranno problemi interni» dice una fonte che conosce bene i meccanismi del ministero.

La strategia

Guariglia è un diplomatico figlio d’arte: suo nonno, Raffaele Guariglia, lavorava al ministero degli Esteri nei primi anni del Novecento e fu ambasciatore d’Italia a Madrid negli anni Trenta. Prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, Benito Mussolini lo inviò a Parigi, mentre dal 1942 fu ambasciatore presso la Santa sede. Riccardo Guariglia, invece, è stato al Cairo, Bruxelles e in Brasile. Dal 2014 ha guidato il cerimoniale diplomatico del Quirinale per Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, ma al ministero tutti lo ricordano per il suo incarico di capo di gabinetto ai tempi di Enzo Moavero Milanesi, ministro del Conte I di cui i diplomatici dopo il cambio di governo non sentirono la mancanza.

La scelta di Guariglia viene letta come prova tangibile della volontà di Tajani di imprimere la sua linea personale sulla macchina ministeriale, diversamente dal suo predecessore. Di Maio, che prima del 2019 si era occupato di politiche del lavoro e imprese, si era affidato completamente all’esperienza di Sequi, a sua volta cresciuto con la guida dell’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, considerato uno dei più brillanti diplomatici italiani di sempre.

A sentir parlare chi l’ha seguito nei primi mesi di lavoro, il ministro appare piuttosto decisionista. Il suo atteggiamento arriva a essere percepito da qualcuno dei burocrati come poca volontà di ascoltare chi ne sa più di lui. Senz’altro contribuiscono a creare quest’immagine di Tajani le sue abitudini formali, come la scelta di mantenere il “lei” anche nei confronti dei collaboratori più stretti. Ma quel che da alcuni viene interpretato come distanza e alterigia, per altri (soprattutto in parlamento) è simbolo dell’affrancamento della politica dal predominio dei tecnici, dopo un lungo periodo in cui, dal punto di vista dei loro detrattori, i burocrati avevano di fatto commissariato politici considerati meno esperti, come i grillini.

Discontinuità

Insomma, Tajani vuol far intendere chi è che ha in mano la cloche e ha in mente una linea decisamente meno passiva per il suo ministero rispetto ai predecessori. Nelle prime settimane ha riaperto dossier dormenti da tempo, primo fra tutti quello dei Balcani, riservando all’area un’attenzione molto più elevata di quanto avessero fatto gli ultimi ministri, una decisione che ha incontrato un alto gradimento da parte dei diplomatici d’area.

Tajani affianca anche la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel suo presenzialismo in Nordafrica: il ministro ha in mente per l’Italia un ruolo di primo piano non solo per quanto riguarda il piano Mattei, quindi sul fronte energetico, ma anche nella risoluzione delle controversie politiche interne della Libia.

L’approccio pragmatico piace ai diplomatici, che negli anni passati hanno sofferto l’”avanti così” che era la via maestra della diplomazia italiana che a partire dai tempi del governo Renzi si è prima settorializzata, come nel caso della politica sui migranti di Marco Minniti, e poi si è progressivamente, soprattutto dopo il Conte II, appiattita sulla linea di Washington.

Resta da vedere se nei suoi frequenti viaggi delle ultime settimane, apprezzati anche dall’opposizione, Tajani riuscirà a declinare la strategia presenzialista anche in termini non soltanto economici, com’è successo secondo i suoi detrattori fino a questo momento. «Ricostruire relazioni non basta», dice una fonte parlamentare, «c’è bisogno di un disegno complessivo, che non discenda solo dagli interessi finanziari». Per esempio, nel caso del Sahel, per quanto riguarda le infiltrazioni economiche russe nell’Africa settentrionale, con cui Roma dovrà fare i conti presto o tardi, e che toccano anche la sfera geopolitica.

L’underdog

Per comprendere meglio il desiderio di Tajani di imporsi e le sue prospettive di riuscire a guadagnarsi l’approvazione dei diplomatici bisogna guardare al passato del ministro. Durante il periodo della formazione del governo, alla Farnesina la tensione era tangibile, ma alla fine la scelta di Tajani, un moderato che ha alle spalle una carriera in Europa, ha rassicurato gli animi molto più di altri nomi che giravano in quei giorni, come quello dell’ambasciatore Stefano Pontecorvo.

Il discorso è simile per la nomina di Guariglia, che può gestire la macchina pur avendo in mano carte meno brillanti di quelle di Armando Varricchio, ambasciatore a Berlino, e Pasquale Terracciano, a capo della nuova direzione Diplomazia culturale.Entrambi erano quotati come potenziali segretari generali, ma chi conosce bene il dossier sostiene che il primo si fosse esposto eccessivamente nei confronti del centrosinistra in passato, mentre le possibilità di Terracciano erano evaporate già ai tempi della nomina di Sequi.

Insomma, Tajani ha bisogno di una spalla che lo agevoli nella partita che per lui può diventare un riscatto. Da capocorrente perdente, vicepresidente di Forza Italia e delfino mai incoronato erede del partito di Silvio Berlusconi, si è costruito una carriera lontano da Roma. Al parlamento europeo ha operato praticamente in solitaria, senza un sostegno concreto da parte del suo partito, organizzando gli europarlamentari italiani di centrodestra e guadagnandosi poi nelle trattative un posto da commissario prima e da presidente del parlamento poi.

I rapporti con Meloni

Questo ruolo di underdog non è lontano da quello che ha tratteggiato per sé stessa la premier Meloni nei primi giorni della sua presidenza. Secondo chi conosce entrambi, l’intesa forte tra la premier e il suo ministro degli Esteri è da ricondurre proprio all’approccio alla vita che i due condividono. Il legame è forte e personale, sganciato dal partito di appartenenza, simile a quello che la presidente del Consiglio ha con il ministro dell’Economia leghista Giancarlo Giorgetti.

Meloni ha voluto Tajani come capo della Farnesina nonostante in quelle settimane gli audio rubati di Silvio Berlusconi sulle «lettere affettuose» scambiate con Vladimir Putin mettessero in cattiva luce tutta Forza Italia nelle trattative per il governo. Forse, all’epoca il calcolo di Meloni era quello di mettersi a fianco un ministro debole per imporre la linea anche al ministero degli Esteri, ma sicuramente oggi i due si guardano da pari.

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