In etologia viene chiamata “tanatosi” ed è la capacità di alcuni animali di fingersi morti come forma di autodifesa. Piuttosto che soccombere in una battaglia impari meglio ingannare il pericolo e far sì che passi oltre. Alcuni commentatori, durante i giorni dell’elezione del presidente della Repubblica, hanno attribuito a Enrico Letta questo tipo di strategia.

Piuttosto che ingaggiare uno scontro con Matteo Salvini e con il centrodestra, ma anche con le correnti la cui esistenza è uno dei princìpi fondanti del Pd, il segretario democratico è rimasto fermo, ha schivato e giocato di rimessa. Non un nome è stato da lui candidato pubblicamente.

Solo due desideri, esplicitati nel salotto televisivo di Fabio Fazio alla vigilia dell’inizio delle votazioni: «Parlerò con Salvini per capire se la loro posizione su Draghi sia ultimativa. Quanto a Sergio Mattarella, per noi sarebbe il massimo, la soluzione ideale e perfetta».

Il risultato finale, il raggiungimento della «soluzione ideale e perfetta», è sicuramente il segno che la “tanatosi” è stata un’ottima strategia. Non fosse altro che in concomitanza ha prodotto sia un momentaneo indebolimento delle correnti interne (chi può, oggi, rimettere in discussione la leadership del vittorioso Letta?) sia l’implosione del campo avversario con Salvini che, per la seconda volta nel giro di pochi anni, ha dato ulteriore prova della sua totale inconsistenza politica.

Paolo Repetti, ideatore, fondatore e direttore della collana Stile libero di Einaudi, ha commentato con un tweet: «Stiamo zitti fermi immobili. Lasciamo il boccino a Salvini. È lui che rifonderà il centrosinistra». A ognuno la libertà di decidere quanta ironia, quanta rabbia e quanta rassegnazione si accompagnino a queste parole. Di certo che Repetti ha sollevato un tema che rappresenta una costante del dibattito politico sul centrosinistra dal 1994, anno dell’avvento di Silvio Berlusconi, in poi.

La domanda è semplice: cosa deve fare il centrosinistra per battere le destre? Deve farsi portatrice di un proprio progetto, sfidare senza timore gli avversari anche accettando il rischio della sconfitta? O deve aspettare timorosa che siano gli avversari a sbagliare per poi provare a raccogliere tutto ciò che di buono può venire da questa autodistruzione?

Attenti al gorilla

Per anni uno degli argomenti elettorali più utilizzati dal Pd, dai suoi alleati e dai suoi avi, è stato quello della paura del nemico. Semplificando: votate noi altrimenti arriveranno Berlusconi, Salvini, Giorgia Meloni, i fascisti, i barbari e una serie di eventi catastrofici a vostra scelta.

Anche nell’elezione del Quirinale, in fondo, la paura di ciò che avrebbe potuto combinare Salvini (vedi Maria Elisabetta Alberti Casellati) ha prevalso su tutto il resto. Nell’immediato è indubbio che questa strategia può produrre risultati, ma nel lungo periodo?

La longevità politica di Berlusconi e l’ostinata sopravvivenza, nonostante tutto, di Salvini non sembra deporre a favore di questa strategia. Inoltre i sondaggi dicono che oggi il Pd è intorno al 21 per cento e si gioca con  Fratelli d’Italia, nel giro di pochi punti percentuali, la possibilità di essere il primo partito. Non proprio l’immagine di una storia di successo.

Certo, ci sono state le scissioni, le lotte fratricide, ma il problema, come testimonia anche il dibattito sulla legge elettorale, resta. Come ha scritto Gianfranco Pasquino le leggi proporzionali, in particolare quelle prive di soglia di accesso, «consentono la frammentazione, addirittura facilitano, se non incoraggiano, le scissioni». E in uno scenario simile la “tanatosi” è ovviamente il modo migliore per ritrovarsi al governo per insipienza altrui. Magari stringendo alleanze temporanee, come Letta starebbe pensando di fare con ciò che resterebbe di Forza Italia, con frammenti del campo avversario. 

Non a caso Romano Prodi, padre nobile del Pd, si è subito agitato. «Nella mia testa c’era sempre l’idea che si costruisse una bella coalizione di centrodestra da una parte e di centrosinistra dall’altra, e che si sfidassero con una legge elettorale maggioritaria. Questo è il paese moderno che sognavo, ma vedo che siamo sempre più lontani» ha detto ospite a diMartedì. 

E ancora: «Ripensare il centrosinistra è doveroso, è doveroso lavorare su questo. Io penso che bisogna ripartire da capo, come tutto sommato ho fatto io con l’Ulivo: girare il paese, parlare con le persone, ricostruire un programma».

Dì qualcosa di sinistra

Il programma quindi, per dirla con Repetti, non può essere stare «zitti, fermi e immobili». E forse l’elezione del presidente della Repubblica poteva essere un’occasione per fare qualcosa di più. Enrico Morando, ex parlamentare di Ds, Pds e Pd, ex viceministro ma, soprattutto, ex coordinatore del governo ombra del Pd ai tempi della segreteria di Walter Veltroni (quelli del «partito a vocazione maggioritaria») ne è convinto. «Si poteva – dice – lavorare per raggiungere e superare il crinale che ancora ci divide dal diventare un sistema politico maturo».

Che nella sua idea vuol dire «una nuova fase dove l’Unione europea e l’atlantismo non sono in discussione, dove c’è un impegno comune sui fondamentali – che non possono essere oggetto di battaglie di parte – e dove due proposte di governo si confrontano davanti agli elettori riconoscendo in partenza la legittimità dell’avversario». In sintesi la fine del “se vince lui sarà un disastro”.

Veltroni ci aveva provato, nel 2018, evitando di impostare la campagna elettorale sull’attacco continuo e ripetuto al «principale esponente dello schieramento a noi avverso». Ma il suo tentativo, appartiene da tempo all’album dei ricordi. Sempre più sbiaditi.

Per Morando l’elezione di Mario Draghi al Quirinale, con il sostegno di tutti, poteva essere il punto di svolta. Così non è stato ma dovendo indicare un colpevole, secondo l’esponente del Pd, lo sguardo va rivolto più a Salvini che a Letta. «Era la sua occasione, chi avrebbe più potuto dirgli “tu sei impresentabile”?»

Alla fine il segretario del Pd, «visto il baratro della possibilità di perdere Draghi sia come presidente della Repubblica sia come presidente del Consiglio» ha semplicemente cercato di evitare la catastrofe. «E bene hanno fatto i parlamentari, su tutti Stefano Ceccanti, che da un certo momento in poi hanno lavorato per il bis di Sergio Mattarella».

Anche il professor Michele Salvati, altro protagonista della stagione veltroniana del Pd, è convinto che, «data la situazione, Letta ha fatto bene». Ma questo non cancella un dato: alla prospettiva ambiziosa di aprire una nuova fase si è preferito il mantenimento dello status quo. Un esercizio di pragmatismo politico, probabilmente inevitabile, ma che accompagnato ai nostalgici sogni proporzionalisti di questi giorni lascia molti dubbi sul futuro del Pd e del centrosinistra.

Chi sono io

Per Salvati, è anche il contesto a non aiutare l’espressione di sé. In una democrazia del «tutto e subito» in cui il populismo ha radici profonde e prevale la ricerca del risultato immediato, è chiaro che uno «sguardo lungo» ha difficoltà a imporsi. E la paura di ritrovarsi nel ruolo di Cassandra alla guida di un partito politicamente irrilevante sembra smorzare qualsiasi afflato riformista. 

Un problema che riguarda tanto la sinistra quando la destra. Dopotutto, dice il professore, «chi è il conservatore intelligente se non un povero deluso?»

Peccato sia a quel «povero deluso» che la sinistra spesso punta. Camuffandosi, nascondendosi e consegnando a Salvini, o a chi per lui, le chiavi della sua “rifondazione”. «Ma nel medio periodo diventa evidente una strategia, perseguita da molti, che rappresenta un limite fondamentale – dice Morando –: non si riesce ad aprire una vera stagione riformista, in tutti i campi, non perché gli alleati ti lasciano, ma perché tu, in fondo, non la vuoi».

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