Stallo in Toscana e Campania, anche il corteo disarmista divide. A Strasburgo per il Pd voto a rischio sul «Military Fund»
Il voto referendario doveva sbloccare l’alleanza di centrosinistra, almeno nel suo formato campo-largo-ristretto Pd-M5s-Avs, e dare lo slancio agli accordi nelle regioni che andranno al voto in autunno: per prime le Marche (si parla del 21 settembre), poi la Toscana (ipotesi il 19 ottobre), quindi Veneto, Puglia e Campania.
Ma il referendum non è andato bene, e quello che doveva venire dopo non sta procedendo in maniera fluida. A partire dalla prima piazza convocata dopo quella pro Gaza del 7 giugno, e dopo le urne.
Al corteo di Roma per lo Stop al riarmo europeo del 21 giugno prossimo, a cui hanno aderito oltre 400 associazioni (tra cui Arci, Sbilanciamoci, Rete italiana pace e disarmo, Fondazione Perugia Assisi, Greenpeace Italia, Attac e Transform Italia), il Pd ufficialmente non ci sarà: stavolta con Giuseppe Conte, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, non ci sarà Elly Schlein. Sarà, insieme al responsabile Esteri Peppe Provenzano, al congresso del nuovo fronte rossoverde olandese, a Nieuwegein (Utrecht).
E non è questione di assenze, il punto è politico: il Pd non ha aderito alla piattaforma del corteo, disarmista e molto radicale sul tema del «genocidio» a Gaza. Quindi non ci sarà una delegazione “ufficiale” dem, i dirigenti che sfileranno lo faranno a titolo personale: di certo Arturo Scotto, Laura Boldrini, Sandro Ruotolo. A ora non risulta che vada nessuno della segreteria, neanche dirigenti più vicini alla segretaria: non ci sarà Marco Furfaro, impegnato al Pride di Prato, e non ci dovrebbe essere Marta Bonafoni, a Rieti per il congresso cittadino. Una presenza a bassa intensità che per questo non è stata contestata dall’ala riformista, che ha votato sì al piano di riarmo a Strasburgo.
O quasi. Per la vicepresidente dell’europarlamento Pina Picierno, quella piazza dovrebbe essere impraticabile per tutto il Pd: «L’implementazione della difesa e della sicurezza comune è una evidenza dei nostri tempi, contestarne le ragioni è fuori dal mondo. Si sta lavorando per migliorare alcuni aspetti del ReArm e i socialisti europei stanno facendo grandi sforzi in questa direzione. Le forze che ambiscono al governo di un grande paese come l’Italia non possono pensare a passi indietro o assecondare spinte populiste».
Il tema delle spese militari riaffiorerà nel Pd, forse già oggi, a Strasburgo, dove si voterà il rapporto Muresan-Negrescu che consente agli stati di usare i fondi Pnrr per le «tecnologie strategiche». Il M5s denuncia la trasformazione del Recovery Fund in «Military Fund». Il Pd potrebbe dividersi.
Regioni in lentezza
Intanto gli accordi regionali marciano ad andamento lento. Dopo il referendum, FdI ha lanciato sul tavolo la “bombetta” dell’introduzione del terzo mandato per i presidenti di regione. Un repentino cambio di idea di Giorgia Meloni per risolvere i problemi della destra in Veneto, ma anche per mandare in tilt il centrosinistra.
Sembra un bluff. Lunedì Antonio Tajani ha avvertito che Forza Italia «non lo voterà» e le opposizioni minacciano fuoco e fiamme. Ma intanto in prima Commissione del Senato è stato rimandato al 24 giugno il termine per gli emendamenti al ddl 1452: il terzo mandato potrebbe essere agganciato qui. Lo slittamento serve a prendere tempo e aspettare la decisione dei leader. Ma la sola ipotesi ha ringalluzzito il presidente uscente della Campania Vincenzo De Luca, e ingrippato i tavoli locali fra Pd e M5s. L’impasse viene negato. «I tavoli non si sono mai fermati», giura uno di quelli che li convoca. La chiusura dell’accordo sulla corsa di Roberto Fico viene prevista entro il mese di luglio.
Ma le cose non vanno bene neanche in Toscana. Qui il terzo mandato non c’entra, c’entra una tegola arrivata in testa al Pd: la sindaca dem di Prato, Ilaria Bugetti, è indagata per corruzione, giovedì il giudice deciderà se restringerla agli arresti domiciliari. I Cinque stelle annunciano l’abbandono della giunta. E la vicenda rischia di fornire loro l’alibi per sfilarsi dalla futura coalizione per le regionali, dove faticano ad accettare la ricandidatura di Eugenio Giani.
Decaro e le comari
Anche in Puglia l’alleanza fra Pd e M5s procede ad andamento lento. Il prossimo 5 luglio i dem presenteranno agli alleati la loro proposta di programma per le regionali. Qui il candidato naturale è l’europarlamentare Antonio Decaro. E va detto che in queste ore di incertezza, il due volte presidente Michele Emiliano non si è dimostrato interessato al terzo mandato (ben sapendo che nel Pd la cosa è fuori discussione). Il guaio, però, è che Emiliano intende candidarsi da consigliere regionale “semplice”, per «dare una mano».
E la stessa cosa vuole fare l’altro ex presidente pugliese, Nichi Vendola. L’idea di avere due ex in Consiglio, però, non piace per niente a Decaro, che sta dicendo a tutti – perché Schlein e Francesco Boccia intendano – che non vuole due «tutori». Se c’è la coppia in Consiglio lui non c’è. Per evitare di perdere il candidato già plebiscitato alle europee, il Nazareno ha una sola mossa: promettere a Emiliano un posto in parlamento, nel 2027.
In Veneto, comunque vada la contesa a destra, la sinistra non ha speranze di vittoria. Nelle Marche invece sì, e infatti è la regione su cui Giorgia Meloni concentra le forze per la conferma del presidente Francesco Acquaroli contro la corsa già iniziata di Matteo Ricci. Giovedì si dovrebbe chiudere positivamente l’accordo di programma dell’alleanza, M5s compreso. Ieri Ricci ha rilanciato la proposta pentastellata di salario minimo, indubbio segno di buona volontà.
Il Pd è convinto che il campo largo si farà. Ma ancora non c’è. E serve. Le Marche sono la prima regione al voto delle cinque, per avviare la destra al suo «autunno» serve un buon inizio. Per il centrosinistra un risultato finale 4 a 1 sarebbe un successo. Il 3 a 2 sarebbe un niente di fatto.
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