Alla fine la gara è quella per intestarsi il successo di aver portato a casa un accordo sulla riforma Cartabia. Che sia l’orgoglio dell’intervento migliorativo promesso da Giuseppe Conte, o l’elogio del «giusto equilibrio per superare la riforma precedente senza scadere nell’impunità» come twitta Enrico Letta, o ancora la soddisfazione di «non mandare in fumo i processi per mafia, traffico di droga e violenza sessuale» dei leghisti.

Il via libera alla riforma della giustizia arriva dopo una maratona di Consiglio dei ministri, diverse sospensioni, diversi momenti di tensione. I ministri Cinque stelle per qualche ora valutano l’astensione sulla misura quando dalla bozza emerge un impasse. Nella lista dei reati a cui applicare un’eccezione all’improcedibilità non compare un comma dell’articolo 416 bis, quello che riguarda i processi per delitti con aggravante mafiosa.

Una linea rossa per il Movimento, che nelle sue richieste aveva inserito esplicitamente un regime speciale per i reati di mafia e terrorismo.

Il punto di partenza

Già la giornata non era cominciata coi migliori auspici. I problemi nelle ultime ore si erano moltiplicati.

Il Movimento 5 stelle infatti aveva sperato nell’apertura di Mario Draghi e Marta Cartabia sull’eccezione per i reati di mafia e terrorismo, mentre anche la Lega aveva alzato il tiro chiedendo di escludere anche le questioni attinenti a droga e violenze sessuali. Un clima non esattamente sereno per firmare un testo che andava immediatamente inviato in Commissione giustizia e poi all’aula di Montecitorio: dopo un rinvio di oltre due ore per nuove mediazioni, la riunione si interrompe quasi subito proprio sul comma inaccettabile per il Movimento, ufficialmente per permettere ai ministri di partecipare al question time al Senato.

Nell’intervallo i membri Cinque stelle del governo si riuniscono con il futuro leader Giuseppe Conte per decidere il da farsi, ma inizialmente la proposta di applicare l’improcedibilità anche alle aggravanti per i favoreggiatori esterni sembra essere oltre la soglia del dolore del Movimento.

Si inizia a far largo l’ipotesi dell’astensione in Consiglio dei ministri, anche perché è chiaro che altro tempo per ridiscutere il testo non ce ne sarà. La misura è ferma in Commissione giustizia da giorni, il piano di approvarla oggi in volata con una fiducia che nelle ultime ore era stata più volta messa in dubbio non lasciava molto spazio di manovra.

Alla fine la riunione riprende nel tardo pomeriggio e finalmente si trova la quadra sulla mediazione spinta durante la giornata soprattutto dal Pd attraverso il ministro Andrea Orlando, ex guardasigilli.

Il compromesso è quello di concedere tempi più lunghi, fino a sei anni in appello, per i processi per delitti con aggravante mafiosa, nella fase transitoria di entrata in vigore della nuova prescrizione, cioè fino al 2024. La deroga durerebbe per tutta la fase transitoria, salvo trasformarsi in termini fino a cinque anni a regime.

L’intervento dem

Il lavorio era continuato per tutta la giornata: il Partito democratico aveva preferito il basso profilo sul secondo livello dello scontro, quello che si è svolta fra palazzo Chigi e la Commissione giustizia della Camera. I parlamentari erano tutti convocati per attaccare la Lega (e i suoi parlamentari fra i manisfestanti no-vax) e Fratelli d’Italia, che in mattinata alla Camera hanno esibito in aula striscioni contro il Green pass. C’è stato un caso brutto di intimidazione: Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, e presidente della sterminata rete delle Autonomie locali (ex Lega delle autonomie) è stato minacciato fin sotto casa da un corteo di negazionisti il cui capo qualche giorno prima è stato fotografato insieme a Matteo Salvini. Ma sulla riforma della giustizia tutti erano restati pittosto taciturni. Alla Camera a trattare è stata la capogruppo Debora Serracchiani e il capogruppo in commissione Alfredo Bazoli. Dal Nazareno a tenere il collegamento costante con Palazzo Chigi, nella persona del sottosegretario Roberto Garofoli, è stato Marco Meloni, coordinatore della segreteria nazionale e storico (e fidatissimo) collaboratore di Letta. La sera di mercoledì, nel suo giro di telefonate ai leader, Draghi ha sentito anche il segretario Pd: il quale si è con lui impegnato a «favorire la mediazione per una riforma attesa da anni».

Ma il segretario Pd ha preferitonon intervenire, per non esasperare gli animi. Aveva appena incassato il sì di Matteo Renzi per la sua corsa a Siena, e il rischio era di riaccendere le polveri subito: Iv, che pure martedì si era schierata contro l’allargamento del perimetro della legge delega all’abuso d’ufficio chiesta da tutto il centrodestra, malsopporta le impuntature dei Cinque stelle che considera segno di un inemendabile cultura giustizialista.Ma la verità è che il Pd è sostanzialmente d’accordo con i grillini su molte delle modifiche richieste. E ha ascoltato una parte delle critiche fatte dalla magistratura. Fatalmente il passo indietro dei dem ha regalato il ruolo di primo piano agli altri duellanti. La Lega e il M5s «si sfidano ormai a chi è più giustizialista», viene spiegato da un deputato Pd. E Forza Italia cerca di agitare le sue bandierine, irritata dal protagonismo che Draghi e Cartabia concedono ai grillini.

Anche le comunicazioni parlamentari non danno spunti su come la questione possa risolversi prima delle vacanze dei deputati. Nel pomeriggio il presidente della Commissione giustizia Mario Perantoni, M5s, fa sapere alla capigruppo che ormai non ci sono i tempi per mandare in aula la legge la mattina di venerdì. Ma non è precisamente quello che aveva scritto, concordando con l’ufficio di presidenza della commissione: il testo della lettera parla di «oggettive difficoltà», di «tempo che si sta riducendo», insomma rappresenta lo stallo in commissione, che si riflette nei continui slittamenti del Consiglio dei ministri, e si rimette alla capigruppo. Ma non esclude la possibilità di un accordo, e di un voto nottetempo. Fratelli d’Italia, la destra di opposizione, fa sapere che in nessun caso ritirerà le sue 45 proposte di modifica, che si aggiungono a quelle di L’Alternativa c’è.

L’incertezza va avanti fino al tardo pomeriggio, a un certo punto inizia a circolare l’ipotesi che tutti debbano tornare in aula domenica pomeriggio per dare il via libera definitivo al provvedimento, a un soffio dalla pausa estiva.

«Draghi ascolterà tutti, ma alla fine si stuferà e deciderà lui» è la previsione della senatrice Emma Bonino, «Conte non strapperà sulla riforma, il Movimento 5 Stelle non uscirà dal governo». Ma è vero che la ministra Cartabia ha provato a usare il “metodo Draghi” – tirare dritto – su un tema delicatissimo, e forse con qualche ingenuità politica di troppo. Alla fine, però, Conte ha tutto l’interesse a vantare un successo («abbiamo ottenuto comunque un regime speciale anche per tutti i processi su reati legati alla mafia e quindi non si dissolveranno nel nulla») per affacciarsi finalmente alla leadership Cinque stelle che dovrebbe ottenere nel weekend. A fine trattativa si presenta provato alle telecamere, difendendo l’operato dei suoi ministri e dicendosi «davvero rammaricato» per «la durissima opposizione della Lega» sul fronte dei processi alle mafie.

La Lega, che contemporaneamente a Conte esultava per pressoché gli stessi motivi, di tutta risposta accusa l’ex presidente di aver difficoltà a elaborare «il lutto per il superamento della riforma Bonafede» e imputa al M5s di «inventare falsità». Ora resta da vedere quando la riforma raggiungerà l’aula e come l’accoglieranno i deputati, soprattutto quelli Cinque stelle. Per il momento, l’avvocato del popolo ci mette la mano sul fuoco: «Sono fiducioso sulla compattezza del M5s in aula».

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