Messa alla prova del quotidiano esercizio del potere, Marta Cartabia, ministra della Giustizia dal 13 febbraio scorso, si è infilata in un tale dedalo di contraddizioni e balbettii da incarnare il fallimento di un audace esperimento: partita ciellina, non è riuscita a diventare gesuita per meglio servire le sue ambizioni politiche. Nel 1975, quando la futura presidente della Corte costituzionale aveva appena compiuto 12 anni, il fondatore di Comunione e liberazione don Luigi Giussani dette una spiegazione profetica della distanza tra il suo movimento e il mondo gesuita, due modi opposti di vivere il cattolicesimo: «Oggi al volontarismo individualista dei gesuiti va forse sostituita una visione comunionale della vita. C’è oggi bisogno di una dimensione comunitaria dell’esistenza».

Diconsi gesuiti gli appartenenti alla Compagnia di Gesù, fondata 500 anni fa da sant’Ignazio di Loyola. Al contrario dei ciellini, i gesuiti praticano il proselitismo. Per manifestare la propria appartenenza il gesuita fa seguire alla sua firma la sigla S. J. (societas Jesus), come un secondo cognome.

Per complesse ragioni storiche, gesuita è usato anche come sinonimo di ipocrita, indica in modo dispregiativo un’attitudine a giocare con le parole per convincere. Papa Francesco è gesuita e tipicamente alterna ragionamenti gesuiticamente ambigui su temi critici come l’aborto o la libertà sessuale a prese di posizione nette sulle disuguaglianze e sulle ingiustizie del capitalismo. Il presidente del Consiglio Mario Draghi è di formazione gesuita e tipicamente alterna enigmatici silenzi a esternazioni tonanti. Giovedì scorso ha dato una lezione al leader della Lega Matteo Salvini: «L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire», ha detto, dimostrando che se c’è da fare a botte a favore di telecamere sa menare più forte del sovranista chiacchierone.

Balbettii ambigui

Cartabia, animata da un’ambizione talmente dissimulata da risultare plateale, sembra aver acquisito solo la parte ipocrita del gesuitismo. Messa alla prova dello scontro politico, balbetta. Accusata di fare il gioco dei delinquenti con la sua riforma della giustizia, ondeggia, smussa, precisa, come se fosse convinta che non far arrabbiare nessuno sia la strada maestra per diventare la prima presidente della Repubblica donna. Si dichiara «ispirata al bilanciamento» tra le due esigenze di fare giustizia e garantire i diritti degli imputati. «Quando si parla di giustizia», dice, «ritengo che l’equilibrio sia una virtù, non un demerito». E qui sembra risuonare la voce di Nanni Moretti: «Cartabia, di’ qualcosa di sinistra, di’ qualcosa di destra, di’ qualcosa!». Così Draghi, seduto accanto a lei in conferenza stampa, ha dato una lezione anche a lei: «Nessuno vuole sacche di impunità, bene processi rapidi e tutti i colpevoli puniti, è bene mettere in chiaro da che parte stiamo».

Draghi sa che per vincere la corsa al Quirinale deve distribuire un giusto numero di cazzotti, stando solo attento a rimanere sempre al centro del ring. Cartabia crede che basti rimanere al centro del ring, immobile e silenziosa per non far innervosire nessuno. Mercoledì scorso, riferendo alla Camera sul pestaggio dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere avvenuto il 6 aprile 2020, la ministra della Giustizia ha parlato come un’opinionista a un talk show, cioè con vaghe considerazioni su materie ignote, attenta solo a non urtare nessuna sensibilità politica e quella della polizia penitenziaria.

Il 28 giugno sono scattati numerosi arresti tra le guardie carcerarie coinvolte nella “mattanza” e la ministra ha reagito rinnovando «la fiducia nel corpo della Polizia penitenziaria, restando in attesa di un pronto accertamento dei gravi fatti contestati». Ha impiegato tre settimane per presentarsi in parlamento dove avrebbe dovuto dire che cosa era accaduto in quel carcere 15 mesi prima e, soprattutto, se i gravi fatti contestati fossero eccezionali o ricorrenti. Invece ha ammesso di non sapere niente.

Le sarebbe bastato leggere gli articoli di Nello Trocchia su Domani. Il 6 aprile 2020 avviene il pestaggio. L’8 aprile il garante dei detenuti presenta denuncia alla procura della Repubblica. Il 10 aprile vengono sequestrati dalla magistratura i video che più di un anno dopo faranno inorridire la ministra. A giugno 2020 vengono emessi i primi 57 avvisi di garanzia, poi saliti a 117. Un anno dopo Cartabia si sorprende e si interroga: «Mi chiedo come sia possibile che siano accaduti fatti così gravi e di grande turbamento per tutti. Desidero rinnovare la mia vicinanza a tutto il personale delle carceri italiane».

In parlamento resta ambigua: «È nostro dovere riflettere sulla contingenza, e sulle cause profonde, che hanno portato un anno fa a un uso così smisurato e insensato della forza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere». Siamo sicuri che il dovere di un ministro della Giustizia, mentre le carceri scoppiano, sia di riflettere? E su che cosa? Quali cause profonde, se non una profonda e diffusa aberrazione culturale, spingono una falange di 300 guardie carcerarie a compiere una spedizione punitiva in un carcere dove non c’è alcuna rivolta? Ci sono colpevoli e vittime, ragioni e torti? O c’è solo un insondabile dramma sociale di fronte al quale la responsabile politica sa solo invitarci a riflettere con lei?

Insomma, da che parte sta Cartabia? Chi governa le carceri, tecnico o non tecnico, deve dirlo. Invece non lo sa neppure lei da che parte sta, e non per colpa sua. In quella notevole intervista pubblicata 46 anni fa da Massimo Fini sul settimanale l’Europeo, Giussani insisteva sull’unità politica dei cattolici, cioè sulla fedeltà alla Democrazia cristiana.

Quella era la casa dei cattolici, come c’era la casa dei comunisti, quella dei laici e liberali, dei neofascisti eccetera. Quasi mezzo secolo dopo la Dc non esiste più come non esistono più i partiti radicati nella società, quelli che consentivano e al tempo stesso obbligavano chiunque a incanalare le proprie ambizioni in quella ”dimensione comunitaria dell’esistenza”. Adesso sono tutti uguali e dialogano, si confrontano, oppure si insultano ma sempre a titolo personale. Perciò Cartabia è a pieno titolo un eroe dei nostri tempi, al pari di Matteo Renzi, Matteo Salvini e Giuseppe Conte: sono figli di nessuno, non hanno scuola né maestri, non hanno una comunità politica o sociale di riferimento e danno la scalata al potere armati esclusivamente della propria abilità a tirare i dadi. Con una ulteriore distinzione.

I due Mattei, saltando la gavetta comunitaria, si propongono fin da piccoli come leader politici. Cartabia, come il suo circa coetaneo Conte, segue un più riservato cursus accademico fino al momento in cui alcune circostanze favorevoli la inducono a pensare che sia arrivato il momento di giocarsela mettendo in campo la propria cultura giuridica, la capacità di comunicare in modo tattico e le proprie relazioni in attesa dell’incoronazione. Una corsa solitaria, un’avventura da freelance del potere che mai don Giussani avrebbe immaginato.

Esattamente dieci anni fa la professoressa Cartabia, docente di Diritto costituzionale alla non centralissima (per la materia) università di Milano-Bicocca, pesca un jolly pazzesco. Il 21 agosto 2011 al meeting di Rimini di Cl incontra per la prima volta Giorgio Napolitano. Dodici giorni dopo il presidente della Repubblica la nomina giudice costituzionale. A soli 48 anni Cartabia è la terza donna su 110 giudici che si sono succeduti dal 1955, una degli otto (sempre su 110) nominati prima dei 50 anni. Napolitano le dice che vuole vedere rappresentate dentro quella istituzione tutte le anime e tutte le culture.

«La mia voce, secondo lui, era chiaramente identificabile ed era una voce mancante», racconta la prescelta. Non che mancasse la voce di Comunione e liberazione, perché non sarebbe stata degna di Napolitano una lottizzazione così rozza, ma insomma era quella la voce riconoscibile, quella, per capirci, secondo la quale i genitori di Eluana Englaro non avevano diritto di lasciarla morire e gli omosessuali non possono sposarsi. Quella è la cultura che la accomuna al suo grande maestro, il celebre giurista Joseph Weiler, da sempre vicino all’Italia e a Cl, che in uno dei Meeting la conosce, la apprezza e se la porta a studiare in America. Weiler è anche molto amico del presidente italiano, forse gli ha parlato lui della brillante costituzionalista milanese: «Ho sempre pensato che Giorgio Napolitano fosse un grand’uomo. Ho una ragione in più per pensarlo: questa scelta».

Ed è quello il momento magico. Nell’autunno del 2011 tramonta il governo Berlusconi, Mario Monti si insedia a Palazzo Chigi e Mario Draghi diventa presidente della Banca centrale europea. Si apre una nuova stagione politica e Cartabia converte la propria identità dalla fervente appartenenza ciellina alla ferrea determinazione di non pagare alcun prezzo politico a questa appartenenza.

Non bisogna dimenticare che il 13 marzo 2013 Angelo Scola, vescovo di Milano appartenente a Comunione e liberazione che molti davano per già eletto papa al posto di Joseph Ratzinger, è stato bocciato dai cardinali italiani e sbaragliato dal gesuita argentino Jorge Bergoglio. E vi immaginate una ciellina al Quirinale, nel palazzo dal quale Vittorio Emanuele II sloggiò Pio IX a cannonate? Così la vita precedente di Cartabia viene meticolosamente cancellata, al punto da alienarle la simpatia di molti ciellini sinceri. Pensate che mai un giornale italiano ha pubblicato il nome di suo marito Giovanni Maria Grava, per diversi anni tesoriere di Cl. Il fatto più significativo accade nell’agosto 2019, durante la crisi del governo Conte innescata da Matteo Salvini al Papeete.

Prima che torni in sella l’avvocato del popolo, comincia a circolare il nome di Cartabia come premier dell’inedito governo Pd-M5s. La giurista ciellina, se non sai che è ciellina, sta bene su tutto come il beige. Il quotidiano La Verità ironizza, in un trafiletto, sul fatto che a tessere le lodi della giudice costituzionale sia sceso in campo un politologo gesuita. E nota che il Corriere della Sera minimizzi il problema definendola «in passato vicina agli ambienti di Comunione e liberazione», quando è notoriamente amica e tuttora consigliera del presidente di Cl Julián Carrón. Si chiede l’autore Gustavo Bialetti se Cartabia «alle assemblee dei responsabili di Cl in Val d’Aosta ci va per raccogliere funghi».

Cancellare il passato

Pronta arriva la replica. Gesuitica. Il Corriere della Sera pubblica una dichiarazione della giudice costituzionale quantomeno strana, rilasciata dalla Val d’Aosta, sì, ma «al rientro da una gita sulla vetta del Gran Paradiso»: «È stata una bellissima giornata, sono con la mia famiglia. Questa gita era programmata da due anni, non c’è stato alcun tempismo particolare». Non una parola di più. Però almeno si capisce che Cartabia pianifica a lungo termine anche le passeggiate in montagna, figuriamoci la carriera.

Sicuramente all’assemblea dei responsabili di Cl in Val d’Aosta aveva partecipato nel 2010, un anno prima della folgorazione di Napolitano, con un discorso battagliero basato sulla sua esperienza all’Università di New York: «Mentre l’Europa sembra ancora terreno di battaglia per lo smantellamento della civiltà cristiana che ancora resiste, la cosa che più colpisce a New York è che il progetto sembra compiuto». Il ragionamento si sviluppa: «Provo a spiegarmi così: considerando il clima culturale generale, la civiltà dopo Cristo, senza Cristo in cui viviamo, che ha così evidentemente in odio la cristianità, io, come credo molti tra noi, avevo in mente una immagine del potere come di qualcosa di esterno a noi che sostanzialmente ci perseguita». Ma in America c’è piena libertà religiosa, quindi il potere non è contro Cristo ma si insinua direttamente nella mente dei cristiani. Cartabia ricorda che lo stesso Giussani «descrive il potere come qualcosa che ci penetra addosso e così (...) iniziamo a correre dietro a denaro, successo e potere, dentro e fuori del movimento». Analisi e racconto proseguono: in America non manca certo «la dimensione religiosa nella vita delle persone, ma, per quel che ho potuto vedere, si tratta di una religiosità invisibile e inincidente, (...) nessuno osa vivere appieno la propria dimensione religiosa come forma della vita intera».

Dopo aver analizzato questa sottile forma di nicodemismo 2.0 (il fariseo Nicodemo proclamava la sua fede in Cristo solo di notte), nello stesso discorso Cartabia annuncia quasi profeticamente di aver già scelto di inseguire successo e potere: «La situazione “di frontiera” in cui mi trovavo mi ha anche fatto cambiare completamente il metodo di lavoro: mi sono accorta subito che la contrapposizione polemica non mi avrebbe portata da nessuna parte e neppure la pura apologetica della posizione cattolica. (...) Se avessi solo “attaccato”, liquidando sbrigativamente la cultura maggioritaria, mettendomi in “eroica” polemica, credo che nessuno mi avrebbe neppure ascoltata».

Il metodo Cartabia per dieci anni funziona alla perfezione. Lo aiuta essere donna (è lei che lo dice, un giornalista maschio non si permetterebbe mai) e saper tessere le relazioni. Non entra mai in conflitto su niente con nessuno. Piace al Pd, secondo l’antica tradizione di una certa sinistra che si sente figa apprezzando persone di destra.

Costruisce un bel rapporto con il giudice costituzionale Sergio Mattarella, un cattolico vicinissimo al suo concittadino palermitano Bartolomeo Sorge, per decenni faro dei gesuiti italiani. Alloggiano nella foresteria della Consulta e spesso lui la invita a pranzo. Mette a frutto abilmente il grande privilegio dei costituzionalisti: dovendo per mestiere bilanciare i grandi princìpi condivisi che reggono la società, se la possono sempre cavare con i “ma anche”. Un costituzionalista insigne dirà che il diritto alla legittima difesa è sacro, ma anche, non è che puoi sparare a uno perché ti ha sputato. Opinerà che i processi non possono durare troppo, ma anche, non è che se la macchina della giustizia è lenta mandi liberi ladri e assassini. Frasi così se ne possono generare all’infinito e tutte evidenzieranno la saggezza di chi le pronuncia. Fino a che non arriva l’appuntamento inderogabile con la realtà, con la necessità di decidere qualcosa. Si chiama politica e le sue difficoltà vengono spesso sottovalutate dai dilettanti e dagli ambiziosi.

Esempi illustri

Cartabia dovrebbe farselo spiegare proprio da Mattarella. Come tutti i democristiani di vecchia scuola (il segretario del Pd Enrico Letta è stato l’ultimo prima dell’implosione) inizia giovanissimo la carriera politica, condotta in parallelo con quella accademica, costituzionalista anche lui. Sceglie la politica come attività prevalente dopo la morte di suo fratello Piersanti, presidente della regione Sicilia ucciso dalla mafia nel 1980. Rimane sempre fedele a un’identità riconoscibile, appartiene alla sinistra Dc e non si sottrae quando c’è da battagliare. Quando viene eletto presidente della Repubblica, cioè garante di tutto, pronuncia parole sempre misurate. Ma, avendo cultura politica, se decide di dire qualcosa tutti capiscono.

Alla prova della politica, Cartabia ha faticato parecchio a trasformarsi da opinionista a deciditrice, seminando dubbi sulle sue effettive capacità di ricoprire gli incarichi al vertice delle istituzioni per i quali in molti l’hanno frettolosamente considerata predestinata. Prendete il caso di Maurizio Di Marzio, 61 anni, di cui Cartabia ha ottenuto l’arresto una settimana fa a Parigi. Militante delle Brigate rosse, è stato arrestato la prima volta nel 1982 ed era considerato dagli inquirenti, a 22 anni, un terrorista “di un certo rilievo”. Processato e condannato, ha trovato riparo in Francia dove da una trentina d’anni gestisce un ristorante, assistito dalla cosiddetta dottrina Mitterrand. I complicati calcoli della giustizia italiana danno indicazioni controverse, forse deve ancora scontare qualche anno di pena, forse è già tutto prescritto. Cartabia nega di avere “sete di vendetta”, piuttosto è “sete di chiarezza e di reale possibilità di conciliazione”. In realtà la chiarezza è stata fatta decenni fa con sentenze dei tribunali italiani. Cartabia giustamente sostiene che senza prescrizione uno rischia di rimanere imputato per tutta la vita, una cosa brutta. E ancora fa scandalo, giustamente, l’arresto ingiusto di Enzo Tortora.

Ma quando Tortora fu arrestato Di Marzio era già sotto processo. E Cartabia ancora lo vuole trascinare in carcere? Attenzione: non è un problema di esecuzione della pena, come dice la ministra, in Francia è in corso da 30 anni un processo infinito sull’estradizione di Di Marzio. Cartabia vuole far scontare a un ultrasessantenne spiccioli di carcere per reati commessi 40 anni fa, facendo finta di non sapere che la richiesta di estradizione è pendente davanti ai tribunali francesi da 30 anni. E che nel 1994 la Corte d’appello di Parigi rimise in libertà Di Marzio «alla luce della lontananza dei fatti, della lunghezza della procedura italiana, della lunghezza prevedibile della procedura d’estradizione». Non è questione di punti di vista, ma di contraddizioni. Visto che Cartabia dice di ispirarsi alla nobile figura dell’arcivescovo (gesuita) di Milano Carlo Maria Martini («Nessuno uccida la speranza, neppure del criminale più feroce»), viene il sospetto che l’accanimento contro gli ex giovani terroristi invecchiati in Francia non si ispiri tanto a sete di chiarezza e riconciliazione, quanto alla ricerca del consenso di aree politiche che potrebbero risultare decisive fra sei mesi nell’elezione del successore di Mattarella.

Se la fine giurista milanese avesse frequentato la politica fin da giovane e qualcuno non l’avesse illusa che il sistema politico italiano fosse pronto a spalancare le porte a creature aliene che girano senza targa, saprebbe che i professionisti della politica certe sgrammaticature fingono per educazione di non vederle, ma non le dimenticano.

 

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