L’establishment militare americano non sta risparmiando critiche al presidente Joe Biden per come ha gestito il ritiro dall’Afghanistan. «Ci pentiremo della scelta fatta dalla nuova amministrazione», ha detto David Petreus, ex generale comandante in capo in Iraq e Afghanistan ed ex direttore della Cia.

Con mezza dozzina di interviste all’attivo, Petreus è uno dei più impegnati a criticare il presidente americano. Ma sono dozzine i leak, i retroscena e le indiscrezioni provenienti dall’apparato militare rilasciate in questi giorni.

Per i militari, la causa del disastro afgano è la ritirata delle truppe decise da Biden. Il governo afgano poteva essere protetto, sostengono, e i Talebani tenuti a bada con un impegno militare contenuto. La volontà di Biden di segnare un punto politico mantenendo la promessa di ritirarsi nonostante il peggioramento della situazione sarebbe la vera ragione del disastro.

Lo scaricabarile, o blame game, di questi giorni, ha messo in luce ancora una volta la scollatura che esiste tra i presidenti degli Stati Uniti e il loro apparato militare, una macchina che impiega ogni anno il 16 per cento del budget federale, oltre 700 miliardi di dollari, tre milioni di dipendenti tra militari, riservisti e civili, e con un sostegno politico ed industriale ed una capacità di lobbying che fa invidia alle più grandi multinazionali del mondo.

Considerati come una sorta di monolite, in realtà i “commander in chief” e i loro generali hanno spesso opinioni e priorità diverse e non sempre è la visione dei presidenti a spuntarla.

Restare in Afghanistan

I primi segnali di frattura tra Biden e i suoi generali sono apparsi in primavera, quando il presidente ha confermato la sua intenzione di ritirare tutte le truppe entro settembre.

I militari sostenevano da sempre che abbandonare l’Afghanistan sarebbe stato un errore e, nei primi tempi, sembravano convinti di poter persuadere Biden a mantenere un contingente più o meno ridotto nel paese.

«Avremo bisogno di avere un presenza nella base aerea di Bagram, nella capitale, avremo bisogno di risorse di intelligence sul terreno», diceva ad aprile l’ex ammiraglio William McRaven, comandante delle forze speciali ai tempi dell’uccisione di Bin Laden. «Dalle mie conversazioni con persone nella cerchia ristretta del presidente posso dire che questi problemi sono stati considerati».

A giugno, nel pieno dell’offensiva talebana, i generali sostenevano che gli attacchi aerei contro gli insorti sarebbero probabilmente continuati anche dopo la data del ritiro.

A luglio, Seth Jones, analista ed ex consulente del comando forze speciali per l’Afghanistan, scriveva su Foreign Affairs che gli americani dovevano mantenere una armed overwatch nel paese anche dopo la data del ritiro, cioè impegnare sul campo forze speciali, agenti Cia e basi di droni.

Oggi i militari e l’intelligence americana passano alla stampa leak per dimostrare che la rapida caduta del governo afgano non li ha colti di sorpresa. Di certo però sono rimasti spiazzati dalla determinazione con cui Biden ha portato avanti il ritiro.

I generali vincono sempre

La sorpresa è almeno in parte giustifica visto che in passato i militari erano quasi sempre riusciti ad imporre la loro visione su come gestire la questione afgana.

Barack Obama è stato persuaso ad approvare il surge, il temporaneo ma cospicuo aumento di truppe sul campo tra 2010 e 2011, anche se era stato eletto con la promessa di mettere fine agli impegni militari in Iraq e Afghanistan.

Il surge è stato negoziato con i militari e osteggiato a ogni passo dall’allora vice presidente Biden, ma alla fine ha portato il totale di soldati nel paese ad oltre 100mila, con una spesa annuale per le casse federali superiore del 50 per cento a quella dedicata all’istruzione.

Era una decisione probabilmente inevitabile, anche perché come principali generali Obama si era scelto due uomini usciti dall’epoca Bush: Stanley A. McChrystal e lo stesso David Petreus.

Usando un misto di carota e bastone con i suoi generali, Obama è riuscito a mantenere la promessa di ritirare gran parte delle truppe entro il 2012. Ma quando alla fine del suo mandato in Afghanistan rimanevano circa 10mila soldati e forse il doppio di contractor civili, i generali lo hanno convinto a fermare il ritiro definitivo e a modificare le regole di ingaggio delle truppe per permettere loro un maggiore impegno nella lotta ai Talebani.

Con l’arrivo del vulcanico e imprevedibile Trump alla presidenza il copione è rimasto lo stesso. Intenzionato a lasciare il paese a ogni costo, Trump è stato convinto dai militari ad aumentare la presenza di truppe (circa 3mila soldati in più sono stati schierati in Afghanistan nel 2017) e, soprattutto, ad aumentare enormemente il numero di attacchi aerei nel paese (che hanno superato persino il picco raggiunto durante il surge).

È stato Trump a raggiungere l’accordo di pace coi Talebani che prevedeva il ritiro definitivo delle truppe. Ma ha strategicamente collocato la data fissata per la fine delle operazioni nel paese dopo le elezioni 2020. Secondo l’attivista e giornalista Matt Stoller, i generali avrebbero detto a Trump che il ritiro sarebbe stato «incredibilmente caotico e imbarazzante per l’amministrazione e Trump non ha avuto il coraggio di premere il grilletto».

Biden, invece, non ha avuto esitazioni e ha portato a termine il ritiro. Che fosse la scelta migliore o meno, i generali per ora non sembrano intenzionati a perdonargliela.

 

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