Estratto dal libro “L’ultimo aereo da Kabul, cronaca di una missione impossibile” (Piemme) di Stefano Pontecorvo.

Doveva finire così? Non necessariamente. L’epilogo della vicenda afghana costituisce la tappa finale di una serie di altre disavventure finite presso a poco allo stesso modo, a partire dal Vietnam in poi, nella quale il filo conduttore, o i fili conduttori, sono sempre gli stessi.

La mancanza di pazienza strategica, di un obiettivo univoco, di una strategia politica condivisa tra gli attori, di una strategia di uscita ben chiara fin dall’avvio dell’operazione, di conoscenza approfondita del contesto nel quale si opera, la sottovalutazione o disinteresse per il contesto regionale e per la cooperazione con i vicini che conoscono il paese meglio di quelli che vengono da lontano. Con, in aggiunta, la sottovalutazione costante del nemico.

La storia delle operazioni di gestione crisi in cui l’occidente è stato coinvolto dimostra chiaramente che il successo richiede un quadro politico solido, credibile e accettato dalla popolazione e forze armate che, agendo in quel quadro, abbiano la determinazione e il morale per combattere. L’Afghanistan è stato un costrutto debole, nel quale si è partiti dal presupposto che dopo gli anni sovietici e talebani il paese fosse una “tabula rasa” da ricostruire in toto.

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Non era così e le istituzioni della Repubblica islamica si sovrapposero a una serie di consuetudini secolari che avevano resistito nei secoli, senza assorbirle né corrispondere alle aspettative della popolazione.

La frammentazione del quadro e la litigiosità dei vari leader politici, assieme alla corruzione endemica, hanno fatto il resto nel minare la costruzione statuale liquefattasi davanti ai talebani. Sul piano militare richiamare un’esperienza del passato, quella vietnamita, può mettere l’Afghanistan in una prospettiva storica. Le similitudini, già rilevate da numerosi autori, sono impressionanti.

Le cause del crollo militare

L’allora presidente americano Nixon volle porre fine alla “americanizzazione” della guerra e ne avviò la “vietnamizzazione”. L’intento era quello di ritirare i 500mila soldati americani in un modo che non portasse al collasso del sud, negoziando un cessate il fuoco e ottenendo un trattato di pace che consentisse di raggiungere la “pace con onore”. La vietnamizzazione ha fatto proprio questo; le truppe statunitensi si ritirarono, fu firmato un trattato di pace e iniziò un cessate il fuoco (di breve durata). Ma il capitolo finale è stato simile a quello afghano.

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Secondo gli analisti militari vi sono ragioni fondamentali per cui l’esercito vietnamita, in cui gli Stati Uniti avevano investito così tanto tempo, sforzi e denaro, è crollato. Le cito perché si sono riprodotte in Afghanistan.

Il modello di forze armate che Washington ha cercato di creare non era tagliato sulle esigenze vietnamite; alcuni analisti americani hanno parlato del tentativo di replicare in Vietnam il modello dell’esercito americano degli anni Sessanta, progettato per operazioni su larga scala in Europa con divisioni pesanti e dipendenza dalla potenza di fuoco e dalla tecnologia, piuttosto che puntare a creare una vera forza controinsurrezionale.

Gli americani pensarono che le proprie tattiche e tecnologie potessero essere trapiantate nell’esercito vietnamita, cosa che, insieme alla presenza di consulenti statunitensi a ogni livello, produsse una cultura di dipendenza tale per cui i vietnamiti si dimostrarono incapaci di continuare la guerra una volta lasciati a loro stessi.

Come riconosciuto dallo stesso capo di stato maggiore vietnamita dell’epoca, generale Cao Van Vien, che sottolineò che «la forza del Vietnam del sud era stata costruita sugli aiuti esteri e non sulle risorse nazionali [...] Il destino del Vietnam del sud dipendeva dai suoi amici americani [...]».

Anche in Vietnam fu una questione di modi e di tempi, con il ritiro americano giunto prima che le forze vietnamite fossero autonome e autosufficienti. In aggiunta, proprio come in Afghanistan, giocarono altri tre fattori: la corruzione che ha permeato fino ai vertici della forza, con un impatto devastante che ha distrutto il morale e lo spirito delle truppe e contribuito a tassi molto elevati di assenza dal servizio; il versante politico, con il presidente Thieu che gestiva anche gli aspetti più minuti intromettendosi in questioni che sarebbe stato meglio lasciare ai comandanti; e infine il sistema di nomina dei comandanti, scelti per la loro lealtà piuttosto che per le loro capacità.

Proprio come in Vietnam il crollo militare afghano ha avuto molte cause, con le forze armate che hanno cominciato a cedere all’indomani dell’accordo di Doha, dinamica ampliata dalla performance catastrofica della dirigenza politica afghana. Le forze afghane si sono condotte con onore in molte occasioni subendo enormi perdite: negli ultimi venti mesi della Repubblica hanno avuto lo stesso numero di vittime che i sovietici avevano subito nei loro dieci anni di permanenza nel paese.

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Esse avevano un notevole grado di resilienza pur dovendo confrontare un’opposizione militarmente capace, che poteva contare su un forte sostegno esterno e aveva la necessaria pazienza, una narrativa e una missione nella quale credeva e un ampio bacino di combattenti dal quale attingere. Il piano operativo dei talebani è stato efficace, deliberato e devastante.

Con una campagna mediatica pervasiva e martellante hanno creato una percezione di onnipresenza e un’ondata psicologica di inevitabilità della loro vittoria che ha alla fine sopraffatto le forze regolari. Come in Vietnam, un ruolo fondamentale è stato giocato dall’aspetto psicologico e dal morale dei soldati. Basil Liddell Hart, uno dei più autorevoli scrittori militari del secolo scorso, scrisse che «l’impotenza induce alla disperazione e la storia attesta che la perdita di speranza e non la perdita di vite è ciò che decide la questione della guerra»; dal canto suo Napoleone sosteneva che «il morale è al fisico come tre sta a uno».

Strategia ondivaga

I governativi sentivano di avere poco per cui lottare, mentre i talebani erano fortemente motivati. La strategia militare, afghana, americana e Nato è stata ondivaga con vari cambiamenti di rotta tra il 2001 e il 2021, senza mai decidere se si trattasse di una missione antiterrorismo, incentrata sulla sconfitta del nemico, o una campagna controinsurrezionale, che implica la sconfitta degli insorti attraverso un programma incentrato sulla credibilità dello stato come alternativa e baluardo contro l’insorgenza e che presuppone una capacità di sicurezza statale autosufficiente e un progetto politico in cui il popolo può credere e al quale può aderire.

Per gli americani la componente antiterrorismo era preminente, e l’hanno perseguita fino all’ultimo con un coinvolgimento minimo degli alleati. La coesistenza di due operazioni, la Enduring Freedom americana e Resolute Support Nato non ha portato scompensi operativi sul terreno, ma ha creato una situazione nella quale gli alleati non erano sempre al corrente delle operazioni che portavano avanti gli americani e che erano spesso condotte dalla Cia, assistita dalle forze afghane che esse avevano creato e addestrato e non dalla componente militare americana.

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Delle tre componenti principali di ogni forza armata efficace, quella concettuale, quella fisica e quella morale, ci siamo concentrati su quella fisica fornendo armi, munizioni e sistemi tecnologicamente sofisticati, che non erano sostenibili per gli afghani da soli e creando una dipendenza che si è ripercossa sul morale. E non siamo riusciti a trovare un modo per combattere la corruzione tra i nostri partner.

La leadership afghana ci ha messo del suo, antagonizzando i propri militari e sbagliando grossolanamente i propri calcoli politici. Infine, ci sono molte lezioni per la Nato, troppe per essere trattate tutte qui. Buona parte delle nazioni, e qui parlo dei vertici politici, ha affrontato la missione come una dimostrazione di solidarietà, impegno e simpatia con la popolazione degli Stati Uniti piuttosto che come un impegno militare genuino, prolungato e che comportava rischi continui.

Alcune hanno considerato la partecipazione alla missione in Afghanistan vitale per il proprio interesse nazionale, inteso come vicinanza agli americani e hanno quindi mostrato solidarietà con gli americani, partecipando alla coalizione con propri contingenti militari, ma hanno largamente trattato l’Afghanistan come una responsabilità degli Stati Uniti, accontentandosi di un ruolo politico di contorno con una deferenza eccessiva verso Washington e le sue decisioni.

Con il risultato di non essere riusciti a renderci sufficientemente critici rispetto alle direttrici prese dagli americani che sono andati dritti per la propria strada. I militari, dal canto loro, hanno fatto fino in fondo il proprio dovere, lasciando morti e feriti sul terreno (l’Italia ha avuto 53 caduti e oltre 700 feriti nell’adempimento del dovere), spesso frenati dai caveat nazionali, che ne limitavano il raggio d’azione, oltre che dalla dipendenza dagli americani per alcuni sistemi di intelligence e di protezione che i nostri bilanci della Difesa non hanno consentito di acquisire e schierare.

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Ma non tutto è stato invano

È stato tutto invano? No. Conosciamo la storia del bambino che mette il dito nel foro di una parete della diga e impedisce all’acqua di scorrere e di allargare la falla, salvando il suo villaggio dall’inondazione. Tolto il dito, l’acqua riprende a scorrere, la falla diventa una crepa che si allarga sotto la pressione dell’acqua e alla fine crolla tutto. Quel bambino è la Nato. Fino a che abbiamo tenuto il dito a chiudere la falla, il sistema ha retto per gli afghani e per noi. Tolto il dito, il sistema è crollato e con il crollo si sono indebolite anche le nostre difese.

Per quanto riguarda calcoli più egoistici, stando in Afghanistan abbiamo proiettato stabilità al di fuori dei nostri confini, anche e soprattutto per noi. Con la presenza internazionale nel paese abbiamo di fatto spostato per venti anni i confini della lotta al terrorismo dall’Europa al centro dell’Asia. Siamo andati collettivamente in Afghanistan dopo l’11 settembre per evitare un altro 11 settembre e per evitare che l’Afghanistan restasse un santuario di Al-Qaeda. E che i talebani continuassero a fare dell’Afghanistan un territorio franco per terrorismo, narcotraffico e criminalità.

Tutti ricordano l’11 settembre; in pochi ricordano che l’attentato alle Torri Gemelle è stato il punto di arrivo di una serie di attentati preparati in Afghanistan e che, non fossimo intervenuti, sarebbero continuati. La missione Nato in Afghanistan ci ha consentito vent’anni di libertà dal terrorismo che sarebbe certamente venuto da quel paese se non avessimo disabilitato Al-Qaeda.

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Lo abbiamo pagato a caro prezzo, ma la presenza internazionale in Afghanistan ci ha messo al riparo da ulteriori attentati terroristici e consentito alle nostre società di vivere e prosperare senza doverci preoccupare di una minaccia che avevamo soggiogato. Ce ne sono state altre, indubbiamente, ma non dall’Afghanistan.

Abbiamo lasciato un Afghanistan ben diverso da come lo abbiamo trovato. Vent’anni fa non vi erano praticamente scuole, sanità, educazione, le donne vivevano nel Medioevo nel quale i talebani stanno cercando di farle rientrare. Tutto questo è cambiato e lo abbiamo cambiato noi.

Abbiamo educato una generazione, mostrato che c’è un modo di vita diverso e, con tutti i difetti del costrutto e della (mancata) gestione, e le responsabilità che dobbiamo assumerci, abbiamo mostrato che si può conciliare il carattere islamico del paese con un modo di vita più aperto e con istituzioni che, meglio attagliate alle tradizioni del paese, possono rendere l’Afghanistan un paese accogliente per tutta la sua popolazione e un membro stabile della comunità internazionale.

Noi non ci siamo riusciti come occidente, Nato e Stati Uniti, ma il germe è stato piantato. L’età media afghana è di 28 anni; un’intera generazione è cresciuta esposta purtroppo alla guerra e ai troppi morti causati da essa, ma anche avendo negli occhi un modello alternativo e la consapevolezza di cosa significhi vivere una vita diversa. Per l’Afghanistan vi è ancora una speranza, ed è legata principalmente all’evoluzione e alla crescita di quella generazione.

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