Sfogliando le pagine dei quotidiani nazionali e internazionali delle ultime settimane una domanda sorge spontanea: «E Navalny? Che fine ha fatto? Perché non se ne parla più?»

Nei mesi scorsi abbiamo infatti assistito a una notevole copertura mediatica delle dinamiche carcerarie affrontate dal blogger Aleksej Navalny, ma dall’incontro dello scorso 16 giugno tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo americano, Joe Biden, si è persa traccia del più noto oppositore del Cremlino in occidente. Dove eravamo rimasti? Dopo lo sciopero della fame contro le mancate cure mediche per i forti dolori articolari, iniziato il 31 marzo scorso e interrotto il 23 aprile, Navalny ha ripreso a nutrirsi seguendo il piano alimentare dei dottori. L’allarme di un imminente rischio di morte diffuso dagli attivisti e dalla famiglia è rientrato e, con esso, l’appello “Salvate Navalny” di politici, intellettuali ed esponenti del mondo dello spettacolo. L’attenzione dei media si è drasticamente ridotta per scomparire del tutto dopo il vertice Stati Uniti-Russia.

I problemi delle fondazioni

A livello processuale il dissidente russo è coinvolto in una serie di procedimenti che potrebbero prolungare la durata della sua detenzione. Il primo riguarda la condanna con una sanzione di 850mila rubli (circa 9.500 euro) per aver diffamato un veterano della Seconda guerra mondiale che aveva sostenuto la riforma costituzionale del 2020. Attualmente il tribunale di Mosca ha avviato un altro capo di accusa per alcune sue affermazioni sulla volontà di evadere, espresse nel gennaio scorso. Navalny ha, a sua volta, presentato diverse cause di diffamazione contro il portavoce presidenziale, Dmitrij Peskov, che lo avrebbe definito «un collaboratore che prende istruzioni dalla Cia».

Nel frattempo, i legali dell’attivista sono riusciti ad accedere alla documentazione sul suo tentato omicidio che confermerebbe la diagnosi di «avvelenamento da organofosfati», i composti chimici alla base di molti insetticidi, pesticidi e gas nervini.

Ma le novità più significative provengono al di fuori delle mura della colonia penale numero 2 di Pokrov dove Navalny sta scontando la pena a oltre due anni di prigione.

Le sue fondazioni per la lotta alla corruzione e per la difesa dei diritti dei cittadini sono state dichiarate «agenti stranieri» con immediata sospensione delle attività in tutte le sedi regionali e il Rosfinmonitoring (l’Agenzia federale russa di controllo dei movimenti finanziari) ha inserito il suo partito, “Russia del futuro”, nell’elenco delle organizzazioni estremistiche finalizzate a cambiare l’ordine costituzionale: sono stati, così, bloccati tutti i conti correnti e si è resa impossibile l’organizzazione di manifestazioni politiche ai dipendenti della fondazione. La socia di Navalny, Lyubov Sobol’, ha annunciato il ritiro della propria candidatura alla Duma alle prossime elezioni politiche di settembre: troppe pressioni politiche, fermi amministrativi e minacce di aggressione. In questi mesi altri collaboratori sono fuggiti all’estero dove «continueranno a lavorare», accogliendo l’invito del loro leader su Instagram di «adattarsi» alle circostanze «senza rinunciare agli obiettivi e alle idee del movimento perché la Russia è il loro paese e non ne hanno un altro». Inoltre, la Duma di stato ha approvato una legge che vieta ai leader delle organizzazioni identificate come “estremiste” di candidarsi alle elezioni e di essere eletti nei cinque anni successivi alla decisione del tribunale e ai dipendenti o ai membri di tali associazioni per un periodo di tre anni. Lo scontro “Navalny contro Putin” si riaccenderà nella fase finale della campagna elettorale delle elezioni politiche del 19 settembre: stiamo assistendo, probabilmente, a una quiete prima della tempesta tra le fila dei sostenitori del “sorvegliato speciale”.

Il peso di Biden

Ma c’è un dato politico che è emerso con estrema chiarezza durante il summit tra Stati Uniti e Russia. Mentre alcuni analisti rilasciavano interviste in cui ipotizzavano/auspicavano uno scambio di prigionieri americani con Navalny, il portavoce presidenziale ha affermato che la sua sorte non sarebbe stata oggetto di discussione: «Non c’è nulla da discutere. Questo gentleman si trova in prigione e non ha nulla a che fare con le nostre relazioni con gli Stati Uniti». Come ha osservato il giornalista Fulvio Scaglione, l’unico che dieci giorni fa ha denunciato il silenzio che era calato sul caso Navalny, la narrazione del “killer Putin” che sta uccidendo il suo principale avversario politico in prigione è sparita dopo il cambio di paradigma della presidenza americana: il superamento delle “linee rosse” – tra cui il “caso Navalny” – fermerebbe la ripresa del dialogo tra le due potenze che hanno deciso di cooperare in alcune aree di policy. La prevedibile e naturale conseguenza è che Navalny è rimasto solo nella sua lotta contro il Cremlino e appare chiaro come sia stato “usato” dagli Stati Uniti (e non solo) per contenere sul piano internazionale e destabilizzare sul piano domestico l’ascesa della Russia, soprattutto dopo la (con)vincente fuga in avanti dello Sputnik nella corsa ai vaccini anti Covid-19. Anche Putin sarebbe di questo avviso: «Usano questo personaggio proprio ora, in un momento in cui tutti i paesi del mondo, compreso il nostro, stanno sperimentando esaurimento, frustrazione e insoddisfazione a causa delle condizioni in cui vivono, del livello del loro reddito (…). I numerosi successi della Russia, come l’ideazione del vaccino Sputnik V, iniziano a irritare gli avversari di Mosca». Non abbiamo elementi per ritenere che Navalny avesse previsto questa eventualità al momento del suo coraggioso ritorno in Russia, ma è sufficiente riflettere sul passato sovietico per ricordarsi che non sono mai stati rilasciati prigionieri politici illustri. E che sinora la politica della “promozione dei diritti umani”, sostenuta dagli Stati Uniti, non ha conseguito gli effetti desiderati né in Russia né in Bielorussia. Proclami, sanzioni, minacce hanno avuto l’effetto opposto: un aumento di misure repressive nei confronti dell’opposizione politica, un’evoluzione autoritaria di questi regimi politici. D’altro canto, visti i precedenti, dovremmo avere ormai imparato che quando dall’occidente si promuovono i diritti umani (e la democrazia) c’è da preoccuparsi: di norma tutt’altre sono le loro finalità.

© Riproduzione riservata