La guerra in Tigrai, iniziata a causa del secessionismo del Fronte popolare tigrino, sta ormai assumendo il volto spaventoso di un conflitto etnico con tutte le immaginabili drammatiche conseguenze: massacri di civili, stupri, fame, deportazioni e profughi in fuga. Il fatto che si tratti di una guerra a porte chiuse e che le testimonianze che filtrano siano poche, rende tale triste vicenda ancor più angosciosa. I racconti dell’orrore iniziano ad accumularsi e la preoccupazione delle agenzie internazionali delle Nazioni unite, degli Stati Uniti e del mondo umanitario si fa sempre più viva.

Sono ormai più di cento giorni di un conflitto che ufficialmente le autorità di Addis Abeba avevano dichiarato concluso ma che continua a uccidere e a produrre grandi sofferenze. Ad aggravare la crisi l’intervento armato di truppe dall’Eritrea, all’inizio debolmente smentito dai protagonisti e ora quasi ammesso. Se fosse definitivamente ufficializzato, la guerra assumerebbe un carattere internazionale, una specie di prolungamento dei luttuosi fatti del 1998-2000 che già avevano causato numerose vittime, aumentando l’odio etnico e il tasso di violenza generale. Si può temere un effetto a catena tale da coinvolgere le altre regioni etiopiche e non solo.

I campi dei rifugiati eritrei fuggiti in Etiopia pare siano stati attaccati provocando molte vittime, mentre i superstiti sono fuggiti verso il Sudan o sarebbero stati rimandati a forza verso l’Eritrea dove li attende un destino incerto. La situazione è talmente grave da aver spinto la stessa ministra etiopica delle donne, Filsan Abdullahi Ahmed, ad ammettere che «gli stupri di massa sono avvenuti con certezza e senza alcun dubbio». Simili propositi sono stati espressi dalla presidente Sahle-Uork Zeudé che ha visitato Makallé.

Ad aggravare una già spaventosa situazione, giungono notizie drammatiche anche sul fronte della chiesa: si sta alimentando un odio etnico-religioso, con distruzione delle chiese, massacri di preti ortodossi tigrini e di fedeli. Un attacco alla Chiesa Nostra Signora Maria di Sion, dove la tradizione vuole siano conservate le tavole della legge, avrebbe provocato una strage di centinaia di fedeli inermi. L’antichissima chiesa ortodossa tewahedo sta forse pagando il prezzo di essere considerata il cuore identitario della nazione tigrina e non solo dell’Etiopia tutta? Qualcuno sta soffiando sul fuoco delle divisioni religiose? Sarebbe un fatto gravissimo.

Papa Francesco ha più volte fatto sentire la sua voce in favore della pace in Etiopia. L’Unione europea e gli Stati Uniti hanno chiesto il rimpatrio delle truppe eritree e insistito per ogni possibile accesso umanitario alla regione. Tuttavia il governo di Addis sembra restio e continua a parlare di “affari interni”.

L’Italia ha una duplice ruolo in questa triste vicenda. Innanzitutto possediamo un’antica relazione sia con l’Etiopia sia con l’Eritrea, con le quali abbiamo condiviso una lunga storia comune, nel bene e nel male. È dunque nostra responsabilità morale oltre che politica far sentire urgentemente e con autorevolezza e insistenza la voce del nostro governo in funzione moderatrice e pacificatrice, perché come minimo sia permesso di assistere i civili in Tigrai senza restrizioni e affinché la chiesa sia protetta.

In secondo luogo l’Italia presiede il G20, a cui l’Etiopia ha recentemente annunciato il processo di ristrutturazione del proprio debito pubblico nell’ambito del framework concordato a novembre proprio da questa organizzazione. È urgente che il presidente utilizzi la sua autorità nell’ambito del negoziato, così come in quello delle relazioni diplomatiche con Addis Abeba, per ottenere dal governo etiopico una svolta umanitaria in tale drammatico conflitto.

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