Nei mirini avevano una delle numerose residenze del presidente russo: nella notte di due giorni fa, una novantina di droni sarebbero stati spediti contro l'abitazione di Vladimir Putin nella regione di Novgorod. Sono stati tutti intercettati e abbattuti, ma il ministro degli Esteri russo ha detto che l’operazione «del regime terroristico di Kiev», «compiuta durante intensi negoziati tra Russia e Usa per risolvere il conflitto ucraino», è destinata a incidere e «cambiare la postura negoziale russa».

La rappresaglia è già pronta, a detta di Sergey Lavrov, anche se Mosca non programma dietrofront dai colloqui. Che una risposta ci sarà, lo ha detto anche Putin che ha raggiunto al telefono l'omologo americano. Trump, ai media, del presunto attacco alla dimora Putin, ha riferito vagamente di «non sapere nulla», ma anche di «essersi arrabbiato»: l'attacco forse c'è stato, forse no, comunque «attenzione a superare i limiti» ha detto ricordando che, nonostante la chiamata con il leader russo sia stata «buona», ci sono ancora «questioni difficili» da risolvere.

Kiev ha negato subito ogni coinvolgimento: si tratta di invenzioni, «falsità russa del giorno», secondo Zelensky. Il presidente ucraino, al cancelliere Merz, ha ribadito che Mosca usa «bugie» per «sabotare la democrazia».

Quali garanzie

La traiettoria di questi ultimi droni si interseca con gli esiti del summit appena conclusosi a Mar-a-Lago. «Penso che ce la faremo. Non voglio dire quando, ma penso che ce la faremo», ha detto Trump al termine dell'incontro avvenuto con la delegazione ucraina nella sua tenuta. Anche se è una scena che evoca déjà vu, pare che Zelensky sia riuscito a strappare progressi nell'elaborazione di una bozza d'accordo sulle garanzie di sicurezza offerte dagli Stati Uniti. Avrebbero una durata di 15 anni: sono «forti» ma non «permanenti», coprono un orizzonte temporale che Zelensky chiede di ampliare. «Vorremmo fossero più lunghe. Ho detto che avremmo voluto prendere in considerazione garanzie per 30, 40 o addirittura 50 anni, e che questa sarebbe stata una decisione storica da parte di Trump», ha spiegato.

Quando verranno definite queste tutele difensive – che ricordano quelle dell'articolo 5 dell'Alleanza – Kiev auspica verranno ratificate da Congresso Usa e Parlamenti europei. Zelensky non ha abbandonato l'idea avversa a Mosca di schierare truppe occidentali al fronte: «Credo che una forza internazionale sia una vera garanzia di sicurezza». Sui tavoli negoziali, intanto, di bozze per le garanzie ne circola più d'una: ci sono quelle tripartite tra Ucraina, Stati Uniti ed Europa, un accordo sulla sicurezza bilaterale, un documento sulla cooperazione economica chiamato “roadmap per la prosperità dell'Ucraina”.

Ora, i negoziatori «hanno concordato di preparare le fasi successive del dialogo, inclusi incontri a livello di leader a Washington a gennaio», ha riferito il capo negoziatore ucraino, Rustem Umerov. Nello stesso mese, i Volenterosi si incontreranno a Parigi per discutere di piani concreti di sostegno bellico: «Stiamo facendo progressi sulle garanzie di sicurezza che saranno fondamentali per costruire una pace giusta e duratura», ha assicurato Macron.

Dell'incontro in Florida non resterà solo l'istantanea di Zelensky che strabuzza gli occhi in un silenzio eloquente mentre sente, accanto a lui, l'omologo Usa pronunciare queste parole: Putin «è molto generoso nei suoi sentimenti verso il successo dell'Ucraina».

Zelensky non torna a casa con una vittoria definitiva, ma neppure con una sconfitta: i media americani riferiscono in coro di un ottimismo diffuso, seppur circoscritto, che riesce a convivere con ostacoli che sembrano tanto insormontabili quanto irrisolvibili. Trump si è offerto di intervenire alla Rada per parlare delle concessioni territoriali in cambio della pace – perché, per mettere fine al conflitto, il nodo gordiano rimane il controllo del Donbas: per parlare della regione contesa “concordare” è una parola «troppo forte» da usare, ha detto il repubblicano, ma «ci stiamo avvicinando a un accordo su questo», però, poiché altro territorio «potrebbe essere conquistato nel corso dei prossimi mesi, è meglio raggiungere un accordo ora».

Nonostante gli sviluppi, la parola chiave della guerra rimane questa: Donbas. E l'ha usata, ancora una volta, anche il portavoce del Cremlino Peskov, che ha chiosato che Kiev deve «ritirarsi» se vuole la fine dei combattimenti. Con una tempistica che lascia pochi dubbi sulla sua casualità, il capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov ha dichiarato che nell'anno che sta per finire i russi hanno conquistato circa 6600 chilometri quadrati della mappa ucraina. Gli obiettivi dell'avanzata non sono cambiati: Putin ha indicato come prioritario l'allargamento della cosiddetta zona di sicurezza nel 2026, un altro anno in cui forse la guerra è destinata a proseguire.

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