«Credo che quando il primo ministro fa cose così gravi, allora sia legittimo fare cose gravi contro di lui», spiegava un giovane Itamar Ben Gvir davanti alle telecamere nel lontano 1995, dopo aver vandalizzato l’automobile dell’allora premier Yitzhak Rabin. Alludeva agli accordi di Oslo firmati con i palestinesi e osteggiati duramente dalle destre, dalle cui fila poco dopo sarebbe spuntato l’estremista Yigal Amir, assassino di Rabin nel novembre dello stesso anno. «Siamo arrivati fino alla sua macchina, arriveremo anche a lui», dichiarava Ben Gvir con di fianco il suo complice nella scena ancora reperibile in un filmato d’archivio, mentre mostrava lo stemma staccato dal cofano dell’auto.

Nato nel 1976 a Gerusalemme da genitori sefarditi provenienti dall’Iraq, ex militanti delle organizzazioni sioniste di destra, la nuova stella della politica israeliana, che ha appena riportato al potere il leader eterno Benjamin Netanyahu, cresce in una famiglia tradizionalista ma non particolarmente religiosa.

È in autonomia che negli anni della gioventù sceglie di diventare hozer beteshuva, letteralmente “colui che ritorna verso una risposta”, il termine ebraico che descrive le persone laiche che vivono un riavvicinamento con la religione. Sempre da adolescente si avvicina al movimento Kach del rabbino e parlamentare Meir Kahane, un estremista che invocava la deportazione della minoranza araba, la segregazione su base religiosa in Israele, oltre che la discriminazione degli omosessuali.

Kach illegale

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È in qualità di rappresentante di Kach – diventando leader della compagine giovanile del movimento – che si fa conoscere negli ambienti dell’estrema destra durante i fatidici primi anni novanta, quando i militanti della grande Israele si davano da fare per far deragliare il processo di pace coi palestinesi.

All’epoca del video su Rabin, assurto agli onori delle cronache in Israele ora che Sionismo religioso è terzo partito e probabile spina dorsale del nuovo governo Netanyahu, il suo Kach è già diventato illegale, dichiarato organizzazione terroristica sia in Israele che negli Stati Uniti.

Il 25 febbraio 1994, infatti, un simpatizzante di Kach, il medico estremista Baruch Goldstein, aveva aperto il fuoco sui fedeli musulmani in preghiera alla Tomba dei patriarchi di Hebron, la città più contesa della Cisgiordania.

La strage di 29 civili, concepita come protesta contro gli accordi di Oslo, non sarebbe mai stata condannata dalle compagini più radicali dei coloni israeliani, che infatti a oggi vanno in pellegrinaggio presso la sua tomba nell’insediamento limitrofo di Kyriat Arba.

Lo stesso Ben Gvir è stato apologeta di Goldstein, impersonandolo nella festa ebraica dei travestimenti Purim e dedicandogli un quadro nel salotto di casa. Lo avrebbe levato soltanto due anni fa, all’inizio di un processo di restyling volto a rendersi accettabile come esponente politico di primo piano.

Il ruolo di legale

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Diciottenne nel 1994, l’anno del massacro della Tomba dei patriarchi, l’esercito si rifiuta di assoldarlo proprio a causa della militanza nelle organizzazioni oltranziste, e della fedina penale che lo fa apparire indisciplinato e pericoloso.

Ma Ben Gvir avrebbe combattuto la sua guerra contro i palestinesi a modo suo: diventando avvocato, facendosi accettare – non senza difficoltà, visti i suoi precedenti penali – presso l’ordine degli avvocati israeliani, e mettendosi al servizio della “causa”. A costo di trascurare talvolta la moglie, che porta un copricapo nello stile dei coloni religiosi, e i cinque figli nati dal loro matrimonio.

Da allora ha sfruttato la sua conoscenza dettagliata della legge, con le sue sfumature, le sue ambiguità, i suoi vuoti giuridici e le sue scappatoie, per fornire assistenza legale ai terroristi delle organizzazioni estremiste israeliane.

Ha difeso, spesso con successo, chi ha compiuto crimini d’odio nei confronti di arabi e palestinesi, e bombardato di querele per calunnia e diffamazione gli oppositori politici che lo attaccavano dandogli del “nazista”.

Nel frattempo, il suo attivismo di strada gli procurava otto condanne definitive per disordini, vandalismo, disturbo delle attività delle forze dell’ordine, istigazione al razzismo e sostegno di organizzazioni terroristiche.

Il caso Oliel

In un processo celebre Ben Gvir ha difeso il giovane colono Amiram Ben Oliel che, dando fuoco a una casa nel villaggio palestinese di Douma vicino Nablus nel 2015, causò la morte di un bambino di 18 mesi e dei suoi genitori, lasciando il fratellino di quatto anni Ahmad Dawabsheh come unico sopravvissuto.

La teoria di Ben Gvir, secondo cui gli agenti dei servizi Shin Bet avrebbero estratto le confessioni da Oliel con metodi violenti, costringendolo a rilasciare dichiarazioni sotto tortura, non è bastata in questo caso a risparmiargli l’ergastolo per omicidio.

L’operazione di restyling politico è culminata nella campagna elettorale appena finita, la quinta in meno di quattro anni. Ben Gvir ha detto che se fosse davvero arrivato a Rabin all’epoca di Oslo gli avrebbe «solamente urlato addosso».

Delle campagne per liberare il suo assassino Yigal Amir, condotte con il suo famigerato compare di Hebron Baruch Marzel, non ha più voluto dare notizia.

Un video della scorsa estate lo ritrae durante una marcia nel cuore di un mercato israeliano mentre dei militanti lo accompagnano scandendo lo slogan «mavet la-aravim», morte agli arabi, attraverso un megafono.

Ben Gvir si volta inviperito verso i suoi accoliti e gli ricorda che ormai al massimo ci si può permettere un ammiccante «mavet lamehablim», morte ai terroristi. La pena di morte è uno dei punti principali del suo programma politico.

Il partito

Ben Gvir è leader della formazione Potere ebraico, che nelle ultime elezioni si è unita a Tkumà di Bezalel Smotrich e al partito minore omofobo Noam per formare la lista Sionismo religioso.

Il macchiavellico Netanyahu, cosciente della crescente popolarità di Ben Gvir, ha architettato la sua fusione con movimenti minori dell’estrema destra che rischiavano di rimanere al di sotto della soglia di sbarramento del 3,25 per cento. E che grazie allo stile diretto dell’avvocato militante, che fa presa anche sui giovani, e alla sua kippah indossata tutta storta, sono invece riusciti a entrare in parlamento.

In questo modo non ha sprecato nemmeno un voto utile, mentre la sinistra e i raggruppamenti arabi hanno visto ben due partiti, il Meretz dei pacifisti di Tel Aviv e il Balad dei nazionalisti islamici, precipitare di poco al di sotto della soglia.

In cambio Ben Gvir ha ricevuto da Netanyahu la normalizzazione del suo movimento politico e la promessa, in contraddizione con quanto dichiarato in passato, di un ministero di primo piano. Visto il suo peso politico significativo il leader di Sionismo religioso ora reclama quello della sicurezza interna, che metterebbe alle sue dipendenze la polizia.

In occasione del suo discorso post elettorale, a fianco a lui sedeva Dov Lior, il rabbino estremista dell’insediamento di Kyriat Arba nei pressi di Hebron dove Ben Gvir risiede per scelta. Davanti a loro le folle di fan, tutti giovani uomini, conquistati dall’avvocato oltranzista con le sortite provocatorie alla spianata delle moschee o nel quartiere conteso di Sheikh Jarrah a Gerusalemme.

Lì Ben Gvir ha estratto la sua pistola personale incitando gli agenti di polizia a sparare a chiunque lanciasse pietre. Da parte sua l’avvocato ha usato la sua arma anche a Tel Aviv, per minacciare un parcheggiatore arabo.

Al comizio i suoi seguaci intonavano addirittura «Hu! Ha! Mi she ba, rosh ha memshala habà», cioè «Guardate chi sta arrivando, è il prossimo primo ministro!». Lui ha esordito dicendo che non sarebbe stato ancora premier, aggiungendo: «Ho solo 46 anni».

Con le mani legate

In verità se Bibi non si fosse fatto nemici giurati nelle fila della destra più moderata, con le sue bugie, i suoi processi e il suo spietato cinismo politico, Ben Gvir sarebbe ancora una figura marginale.

È proprio per rimediare alla defezione di politici come Avigdor Lieberman, l’ex Likud Gideon Sa’ar o lo stesso ministro della Difesa Benny Gantz che si è trovato costretto ad agevolare l’ascesa di un ex paria della vita politica, il cui mentore Kahana parlava in una Knesset disertata dallo stesso allora primo ministro di destra Yitzhak Shamir.

Ora a Netanyahu toccherà spiegare la sua mossa sul piano internazionale: da vero professionista della provocazione, mercoledì Ben Gvir ha esordito su Twitter con un sardonico «Hello World!». Il Mario Borghezio di Israele si presenta con il suo motto anch’esso di sapore un po’ leghista: «Chi è da queste parti il padrone di casa?».

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