La politica israeliana degli ultimi venticinque anni è stata caratterizzata dalla presenza di Benjamin Netanyahu. Il 73enne leader del Likud, il partito di centrodestra, nonostante i guai giudiziari e le incriminazioni per corruzione e frode, è la figura che divide maggiormente Israele, creando un solco tra i suoi sostenitori e gli oppositori. Una spaccatura evidenziata anche alle elezioni del 1° novembre, le quinte nel giro di tre anni e mezzo in un paese stretto dall’instabilità politica, in cui Netanyahu punta a tornare al potere.

Il leader israeliano è cresciuto negli Stati Uniti, a causa del trasferimento della sua famiglia a Philadelphia per il lavoro da professore del padre, di origini polacche. Ha poi studiato nelle principali accademie americane.

Sempre da giovane, una volta tornato a Gerusalemme, Bibi (questo il diffuso soprannome di Netanyahu) è stato membro delle Forze di difesa israeliane (Idf), attivo in unità di élite nella cosiddetta Guerra d’attrito e in quella dello Yom Kippur nel 1973. La “formazione” statunitense e il suo impegno nell’esercito sono due fattori che hanno inciso in maniera rilevante nella sua lunga carriera politica e istituzionale. Così come la morte del fratello maggiore, Yonatan, soldato caduto durante un’operazione militare nel 1976. Un evento che ha portato Netanyahu a dedicargli la fondazione di un istituto contro il terrorismo due anni dopo.

I primi incarichi diplomatici

I legami con gli Stati Uniti sono forti, tanto che Netanyahu si sposta continuamente tra Gerusalemme e gli Usa. È il 1982 quando diventa collaboratore dell’allora ambasciatore israeliano a Washington, Moshe Arens, che lo nomina di fatto vice capo della missione americana. 

Due anni dopo, nel 1984, Bibi viene nominato rappresentante di Israele presso le Nazioni unite, ruolo mantenuto fino al 1988. Questi incarichi diplomatici, in aggiunta alla sua educazione nelle università americane, gli permettono di assorbire una profonda conoscenza della politica americana, utilizzata poi da Netanyahu una volta assunta la guida del paese.

La scalata nel Likud

Dopo essere tornato in Israele, nel 1988, Bibi si iscrive al Likud e alle elezioni di quell’anno entra alla Knesset, il parlamento dello stato ebraico. Un esordio importante, perché ottiene un notevole successo personale in termini di consenso, gradimento che gli consente di iniziare un’ascesa interna al centrodestra israeliano, anche grazie alla sua visibilità sui media internazionali durante la prima guerra del Golfo.

Alla guida del partito ci arriva nel 1993, anno in cui partecipa e vince alle primarie del Likud. Due anni dopo sono annunciate elezioni anticipate, a seguito dell’attentato ai danni del premier Yitzhak Rabin, ucciso nel 1995 da un estremista ebreo contrario agli accordi di Oslo, firmati nel 1993 tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese con cui si tentava di avviare un processo di distensione dopo anni di violenze. Ma le tensioni e gli attentati aumentano con la morte di Rabin, a cui succede ad interim Shimon Peres. E Netanyahu in qualche modo sfrutta questa spirale di violenza, incentrando la campagna elettorale sulla ricerca di “una pace sicura” – che diventa il suo slogan – e opponendosi agli accordi di Oslo.

Il premier da “record” e i negoziati con i palestinesi

Dalle urne nel 1996 emerge vincitore, diventando così il primo ministro israeliano, il più giovane (46 anni) e anche il primo premier nato dopo la fondazione dello stato ebraico. Ne diventerà anche il più longevo, anche se la sua prima esperienza alla guida del paese si conclude nel 1999. A segnare questo suo mandato le numerose liberalizzazioni in campo economico, ma soprattutto le trattative con Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp).

Netanyahu firma con Arafat due accordi: il primo è il protocollo di Hebron nel 1997, in linea con gli accordi di Oslo, riguardante la divisione della città di Hebron tra le autorità israeliane e quelle palestinesi a seguito del massacro compiuto nel 1994. E sempre con Arafat, nell’ottobre del 1998, sigla a Washington – con il ruolo fondamentale del presidente statunitense Bill Clinton e del re Hussein di Giordania – il memorandum di Wye River. Un patto che prevedeva il ritiro delle forze israeliane dai territori della Cisgiordania e che porta Netanyahu a essere contestato ferocemente, nonostante la sua posizione critica e massimalista sulla formazione di uno stato palestinese fosse nota. 

Critiche seguite dalla sfiducia al suo governo e quindi da nuove elezioni anticipate, nel maggio del 1999, nelle quali Bibi perde contro il laburista Ehud Barak. La sua sconfitta, e quella del Likud, viene accompagnata dal ritiro dalla sfera politica di Netanyahu che inizia a lavorare nel settore privato.

Il ritorno in politica da ministro

Tuttavia, il suo passo indietro dura poco. Tra il 2000 e il 2001 torna nell’orbita del Likud, in cui però nel frattempo è diventato leader Ariel Sharon che da un’altra tornata elettorale anticipata esce vittorioso ed è quindi nominato premier. Nel 2002, tuttavia, Sharon richiama Netanyahu in ruoli governativi, prima come ministro degli Esteri, fino al 2003, e poi come ministro delle Finanze, fino al 2005. Incarichi che accrescono il suo peso specifico dentro al partito.

Proprio il 2005 è una data spartiacque per Netanyahu e il Likud. Il primo ministro Sharon opta per il ritiro unilaterale israeliano dalla Striscia di Gaza, una mossa che vede la forte opposizione proprio di Bibi che si dimette da ministro, in contrasto con la scelta del premier. Il Likud si spacca, con Sharon che lascia il partito per formare una formazione più moderata, Kadima, mentre l’ala più a destra diventa preminente, scegliendo Netanyahu come leader. Visto il magro risultato delle elezioni del 2006, anche in questo caso svolte prima del previsto, il Likud di Netanyahu si posiziona all’opposizione del governo di Ehud Olmert.

La presa del potere

L’instabilità politica e le critiche all’operazione militare “Piombo fuso” a Gaza, portano però alla caduta dell’esecutivo di Olmert e il voto nel marzo 2009. Il Likud arriva secondo, ma a causa dell’incapacità di formare un esecutivo da parte di Kadima, Netanyahu prende il potere riuscendo a creare una coalizione insieme al partito laburista e al partito Yisrael Beiteinu, altro gruppo conservatore emerso da una scissione del Likud dieci anni prima.

Inizia di fatto l’èra di Netanyahu a guida dello stato ebraico, visto che anche nel 2013 e 2015 si impone alle elezioni formando governi con coalizioni di centrodestra insieme a partiti estremisti religiosi. Mossa che ha contribuito a rafforzare i gruppi radicali e a spostare sempre più a destra il partito. Un potere che durerà, nonostante un lungo periodo di stallo politico tra il 2019 e il 2020, fino al 2021 quando con la nascita del “governo del cambiamento” – creato da Naftali Bennett e Yair Lapid proprio con l’obiettivo di estromettere Netanyahu – lo storico leader cede il passo.

Le crisi nel conflitto israelo palestinese

Durante gli anni al potere Netanyahu ha affrontato in maniera dura la questione palestinese. Tra i più violenti periodi del conflitto c’è l’estate del 2014, quando Israele lancia l’operazione militare “Margine di protezione” nella striscia di Gaza contro Hamas, a conclusione di una spirale di violenza nei mesi precedenti. I bombardamenti israeliani causano più di 2mila vittime, moltissime delle quali civili, e decine di migliaia di sfollati. Un’operazione che Netanyahu porta avanti per «la sicurezza dei cittadini d’Israele» ma su cui viene aperta un’inchiesta delle Nazioni unite e un fascicolo dalla Corte penale dell’Aja per presunti crimini di guerra. Un procedimento contro cui il premier israeliano si scaglia, accusando la Corte internazionale di antisemitismo.

Rilevante è la scelta del governo Netanyahu di proporre nel 2018 la legge sullo “Stato della nazione ebraica”, approvata dalla Knesset, in cui viene definito Israele come uno stato ebraico. Polemiche e accuse di discriminazioni si sono alzate soprattutto dai rappresentanti politici arabi del parlamento.

Nel 2020, invece, Netanyahu annuncia l’annessione unilaterale di colonie israeliane in Cisgiordania, secondo un “piano di pace” supportato anche dal presidente Usa Donald Trump. Un progetto che però, anche a causa di critiche all’interno dello stato ebraico così come di attori internazionali, viene all’atto pratico sospeso. 

È nel maggio 2021 che la violenza riesplode, in quella che viene chiamata già “Guerra degli undici giorni”. Le tensioni scoppiano dopo la decisione della Corte suprema israeliana di sgomberare alcune abitazioni palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est. Tensioni che diventano scontri aperti tra manifestanti e forze dell’ordine. Il coinvolgimento di Hamas, con lanci di missili e razzi, trova risposta negli attacchi aerei di Israele su Gaza con l’operazione “Guardiano delle mura” decisa da Netanyahu e dai vertici militari. Anche in questo caso la figura di Netanyahu è criticata, sia per il fatto di avere acuito nel tempo le tensioni nel paese, sia per utilizzare la guerra come strumento di distrazione per aumentare il consenso nelle fasi più critiche della sua carriera politica. 

I discorsi “celebri” di Bibi

Uno dei primi eventi importanti da quando Benjamin Netanyahu torna a ricoprire il ruolo di premier è il discorso tenuto nel giugno del 2009 all’università di Bar Ilan, tra gli atenei più schierati a destra di tutto il paese. In quell’occasione Netanyahu parla per la prima volta della possibilità della creazione di uno stato palestinese, purché smilitarizzato e che riconosca pienamente Israele, per risolvere il lungo conflitto. Una posizione ribadita anche nel 2015 dopo le elezioni, ma di fatto smentita con le azioni nel corso degli anni.

Altre parole che hanno attirato particolare attenzione, in questo caso negativamente, sono quelle pronunciate da Netanyahu al Congresso mondiale sionista a Gerusalemme nell’ottobre 2015. Il premier israeliano, infatti, afferma che Adolf Hitler non voleva «sterminare gli ebrei» ma solo espellerli dalla Germania. L’idea al dittatore tedesco, secondo Netanyahu, l’aveva data il Gran muftì di Gerusalemme di allora, Haj Amin al-Husseini. Nel giro di poco tempo il leader del Likud deve ritrattare, sommerso da critiche provenienti sia dall’interno che dall’esterno di Israele.

Obama e l’Iran

Le relazioni tra gli Usa e Israele negli ultimi quindici anni sono state altalenanti, sia per via dei rapporti tra Netanyahu e i diversi presidenti americani sia per i tentativi di Bibi di inserire Israele nell’agenda politica statunitense. Fin dall’amministrazione di Barack Obama, con cui l’amicizia tra i due paesi si è incrinata, a tenere banco è il problema dell’accordo per il nucleare con l’Iran, il Joint comprehensive plan of action (Jcpoa). 

Proprio su quel tema, davanti al Congresso americano, Netanyahu tiene un controverso discorso nel 2015, in prossimità della firma di Obama sul trattato, in cui attacca duramente il Jcpoa: «Nessun accordo è meglio di un brutto accordo, e questo è un brutto accordo». Un discorso che divide il Congresso, rappresentando un momento di svolta nelle relazioni tra i due paesi perché il supporto incondizionato americano a Israele si apre a un vero dibattito interno.

Trump, gli accordi di Abramo e Biden

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Con Donald Trump alla Casa Bianca, il rapporto cambia. Con Netanyahu c’è una forte amicizia che poi si riflette anche nelle relazioni internazionali. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, compiuto dal presidente americano nel dicembre 2017, riscuote prevedibilmente il plauso di Netanyahu, rischiando però di scatenare una nuova escalation. L’apertura dell’ambasciata nella nuova capitale avviene nel 2019.

Ma l’asse con il tycoon va oltre, tanto che nello stesso anno Trump riconosce come territorio dello stato ebraico le alture del Golan, contese con la Siria. E il premier, per dimostrare la propria gratitudine, intitola un insediamento israeliano proprio al presidente americano, con tanto di cerimonia ufficiale in presenza dell’ambasciatore statunitense.

Nel 2020 Netanyahu porta a casa, sempre con l’appoggio di Trump, il suo più grande successo in campo internazionale: gli accordi di Abramo. Il 15 settembre, infatti, Israele firma delle intese con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain per la normalizzazione dei rapporti diplomatici. A sottoscrivere il documento presso la Casa Bianca c’è proprio Netanyahu, dopo che in persona e tramite i suoi fedelissimi ha gestito direttamente i negoziati. Un processo di distensione che a stretto giro è seguito da altri paesi islamici come Sudan e Marocco.

Il giorno dopo le elezioni di Joe Biden, Netanyahu si congratula con il neo presidente statunitense, irritando proprio Trump che in quelle ore sostiene integerrimo la particolare tesi del complotto e delle frodi elettorali. Ad ogni modo, con il democratico i rapporti si raffreddano rispetto al suo predecessore.

Le accuse di corruzione

Dal 2019 Netanyahu è imputato in un processo per corruzione, frode e abuso d’ufficio in tre casi giudiziari diversi. Le accuse riguardano i cosiddetti casi 1000, 2000 e 4000: l’ex premier israeliano avrebbe accettato regali fino a un milione di shekel da un miliardario, si sarebbe accordato con l’editore del giornale Yedioth Ahronoth per avere una copertura favorevole in cambio di leggi specifiche per affossare un altro giornale rivale, infine avrebbe attuato – da premier – politiche convenienti nei confronti di Bezeq, gigante delle comunicazioni in Israele, sempre con lo scopo di avere riscontri mediatici positivi. 

Accuse che Benjamin Netanyahu ha negato e rigettato, ma intanto il processo continua. In attesa delle nuove elezioni che potrebbero vedere un ennesimo ritorno di “re Bibi” e insieme a lui il rischio di una deriva anti democratica in Israele.

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